Con la sentenza n. 1579 del 9 settembre 2024, la Corte d’Appello di Venezia, richiamando quanto affermato da Cass. civ., Sez. III, ord. 18 marzo 2024, n. 7243, ha stabilito che «la mancata iscrizione [di una società veicolo di cartolarizzazione ai sensi della L. n. 130/1999] nell’albo di cui all’art. 106 TUB non le preclude la riscossione del credito.
[…] il conferimento dell’incarico di recupero dei crediti cartolarizzati a un soggetto non iscritto nell’albo di cui all’art. 106 TUB e i conseguenti atti di riscossione da questo compiuti non sono affetti da invalidità, in quanto l’art. 2, comma 6, della L. n. 130/1999 non ha immediata valenza civilistica, ma attiene, piuttosto, alla regolamentazione amministrativa del settore bancario e finanziario, la cui rilevanza pubblicistica è specificamente tutelata dal sistema dei controlli e dei poteri, anche sanzionatori, facenti capo all’autorità di vigilanza e presidiati da norme penali, con la conseguenza che l’omessa iscrizione nel menzionato albo può assumere rilievo sul diverso piano del rapporto con la predetta autorità di vigilanza o per eventuali profili penalistici. […] il difetto della citata iscrizione consente al cessionario di agire secondo le ordinarie regole codicistiche, esclusa pertanto la possibilità d’invocare le disposizioni della L. n. 130 /1999 laddove deroganti, in senso più favorevole per la società di cartolarizzazione, alla disciplina civilistica sull’accertamento e/o la riscossione del credito».
Il Collegio veneziano ha ulteriormente sottolineato che «la circostanza che né la mandataria né la sub-mandataria [della società costituita ai sensi della L. n. 130/1999] fossero menzionate nell’avviso di cessione pubblicato nella Gazzetta Ufficiale è irrilevante, in quanto la sussistenza del rapporto di rappresentanza con l’attuale titolare del credito è attestata dalle procure notarili dimesse con la comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado».
In particolare, una società di cartolarizzazione (cessionaria di una banca) e la sua mandataria alla riscossione agivano in monitorio per chiedere il pagamento delle somme dovute da un socio accomandante di una società in accomandita semplice (successivamente dichiarata fallita) in forza di una fideiussione omnibus rilasciata alla banca a garanzia dei debiti della società.
Il garante opponeva il predetto decreto ingiuntivo eccependo la nullità degli atti di riscossione compiuti dalla mandataria e dalla SPV per carenza dell’autorizzazione all’esercizio del credito ai sensi dell’art. 106 TUB, il difetto di titolarità in capo alla cessionaria, la nullità della fideiussione perché conforme allo schema ABI censurato dalla Vigilanza per violazione dell’art. 2 L. n. 287/1990, la decadenza dalla garanzia ex art. 1957 c.c.
L’opponente aveva chiesto l’accertamento dell’estinzione del finanziamento collegato alla fideiussione controversa in quanto regolato in un conto corrente della società il cui contratto non sarebbe stato concluso per iscritto in violazione dell’art. 117 TUB, non risultando pertanto dovuti interessi oltre la misura del saggio legale, i costi e le commissioni addebitate in forza di detto contratto (tra cui le commissioni di massimo scoperto), di conseguenza opponendo in compensazione il credito restitutorio vantato nei confronti del cedente.
Il giudice di primo grado ha accolto le domande dell’opponente dichiarando la nullità di alcune clausole della fideiussione sottoscritta in quanto conformi allo schema ABI censurato e la conseguente decadenza dalla garanzia per scadenza del termine semestrale previsto dall’art. 1957 c.c.
La SPV e la mandataria proponevano perciò appello, chiedendo la riforma della sentenza e ribadendo che la garanzia controversa non sarebbe affetta da nullità in quanto conclusa in un momento successivo al periodo per il quale la Vigilanza aveva accertato la violazione e, comunque, in quanto il rapporto di garanzia, essendo «a prima richiesta», non corrisponderebbe al rapporto di fideiussione configurato dallo schema ABI censurato. Eccepiva, inoltre, l’inapplicabilità dell’art. 1957 c.c. in quanto il contratto di garanzia, essendo a prima richiesta, ne escludeva l’efficacia.
Il Collegio ha parzialmente accolto le doglianze delle società appellanti ritenendo che, pur sussistendo la nullità delle clausole già rilevata dal giudice di prime cure, la clausola con cui viene limitata l’applicazione dell’art. 1957 c.c. era validamente pattuita in quanto specificamente approvata ai sensi dell’art. 1341 c.c. dal garante che, agendo in veste di socio accomandante, non assume la qualifica di consumatore.
Di conseguenza, il Collegio ha accolto la doglianza degli appellanti e ha riformato la sentenza di prime cure nella parte in cui ha dichiarato la decadenza delle appellanti dalla garanzia.
Il Collegio ha conseguentemente esaminato le eccezioni dichiarate assorbite dal giudice di prime cure in quanto riproposte dall’appellato.
Rilevando la mancata produzione dei documenti contrattuali e la conseguente nullità del contratto di conto corrente in cui era regolato il finanziamento collegato al rapporto di garanzia, il Collegio ha accertato l’esistenza di un credito restitutorio della società garantita nei confronti della creditrice originaria per l’indebita corresponsione degli interessi convenzionali e degli altri costi (tra cui la commissione di massimo scoperto).
Il Collegio, rilevando che le quantificazioni operate dall’appellato non erano state contestate nel corso del giudizio, ha conseguentemente compensato il credito derivante dal rapporto di garanzia e il credito restitutorio vantato dalla società garantita ai sensi degli artt. 1247 e 1248 c.c., condannando il garante al pagamento del residuo e ai conseguenti interessi legali.