Con sentenza del 13 agosto 2024, n. 22781 (Pres. Terrusi, Rel. Cosmo), la Cassazione si è pronunciata sull’ammissibilità al passivo fallimentare del credito di un advisor che aveva asseverato una domanda di concordato e predisposto il relativo piano concordatario.
In particolare, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del professionista, il quale aveva richiesto l’ammissione di due crediti, rispettivamente in via privilegiata ed in prededuzione, dovuti in ragione delle competenze maturate per l’attività professionale finalizzata all’asseverazione di una domanda di concordato, nonché alla predisposizione del piano da inserire nella proposta di concordato preventivo.
A tutta prima, il Giudice delegato respingeva integralmente la domanda di insinuazione; di seguito, sull’impugnazione, il Tribunale accoglieva solo parzialmente l’opposizione, limitatamente al credito privilegiato ex art. 2751 bis n. 2 C.c.
Quanto al credito richiesto in prededuzione, e relativo alla predisposizione del piano concordatario, i giudici del merito ravvisavano, in accoglimento dell’eccezione di inadempimento della curatela, l’inidoneità a superare lo stato di crisi del piano concordatario consigliato dal professionista: da qui si fondava “il negativo giudizio in termini di diligenza dell’attività professionale profusa dall’Advisor nella scelta dello strumento più appropriato a superare le difficoltà aziendali, oltre che nell’aver omesso di prospettare al cliente tutte le problematiche economiche finanziarie e di diritto inerenti a quegli aspetti che hanno, poi, in concreto impedito l’utile esperimento della domanda, del piano e della proposta di concordato”.
Nel respingere il ricorso, i giudici di Piazza Cavour hanno conformemente stabilito che “la mancata apertura della procedura concordataria per la non conformità del piano e della proposta al paradigma legale costituisce un elemento valutativo del non corretto adempimento della prestazione professionale”.
La Cassazione ha infatti ritenuto che il Tribunale, nel caso di specie, avesse correttamente applicato il seguente, consolidato principio di diritto:
“il curatore che solleva nel giudizio di verifica l’eccezione d’inadempimento, secondo i canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale, ha (solo) l’onere di allegare e provare l’esistenza del titolo negoziale, contestando, in relazione alle circostanze del singolo caso, la non corretta (e cioè negligente) esecuzione della prestazione o l’incompleto adempimento, restando, per contro, a carico del professionista (al di fuori di una obbligazione di risultato, pari al successo pieno della procedura) l’onere di dimostrare l’esattezza del suo adempimento per la rispondenza della sua condotta al modello professionale e deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è intervenuto con la propria opera ovvero l’imputazione a fattori esogeni, imprevisti e imprevedibili, dell’evoluzione negativa della procedura, culminata nella sua cessazione (anticipata o non approvata giudizialmente) e nel conseguente fallimento”.