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Dossier

Tasso variabile, clausola «floor» e usura sopravvenuta

A proposito di ABF Roma, 06 marzo 2015, n. 1758

9 Luglio 2015

Redazionale

1.- Nella specie si tratta di un mutuo di medio-lungo periodo, stipulato in concomitanza con l’entrata in vigore della legge n. 108/ 1996 e di durata quindicennale. Tale mutuo prevede una retribuzione a tasso variabile, «indicizzato al tasso ufficiale di sconto più uno spread di 5 punti percentuali, con un “minimo irriducibile” dell’8%».

Nei fatti, la retribuzione così congegnata viene a superare il tasso soglia, volta a volta applicabile, per i «periodi compresi tra il 1° aprile 2003 e il 30 giugno 2007, nonché tra il 1° aprile 2009 e il 30 settembre 2011». Il punto appare del tutto pacifico in controversia: in pratica, quasi sette anni su quindici complessivi del rapporto si connotano, dunque, per l’eccessività del compenso richiesto dalla banca e pagato dal cliente; e questo, a quanto pare, proprio per la previsione della detta clausola «floor». Si noti: nel 2003 il TEGM del mutuo si aggira intorno al 4,50%; nel 2009 intorno (grosso modo) al 3%; il primo trimestre del 2011, poi, reca – per i «mutui a tasso variabile», appunto – la misura percentuale del 2,68.  

Cifre che, in effetti, fanno riflettere non poco. Un caso esemplare – è davvero il caso di dire – di usura sopravvenuta.

2.- Della medesima usura sopravvenuta il Collegio romano riconosce senz’altro la rilevanza, in particolare modo sottolineando come la specie rifletta il caso di «contratti a tasso variabile spuri, i quali preved[o]no un floor prossimo alla misura del tasso concordato»; e così riprendendo una affermazione incidentale del Collegio di Coordinamento 10 gennaio 2014, n. 77, il quale pure osservava in proposito come «normalmente» i mutui a tasso variabile non sforino nell’usura sopravvenuta solo in quanto «incorporan[ti] in sé un meccanismo di adeguamento ai tassi» che di tempo in tempo il «mercato» va a presentare.

Si tratta, per la verità, di soluzione che oggi può ritenersi sostanzialmente accettata dal diritto vivente. Così come risulta senz’altro diffuso il passo immediatamente successivo che il Collegio viene a svolgere: quello relativo alla statuizione che la remunerazione spettante alla banca mutuante per il periodo relativo alla pretese usuraria va ridotto e riportato alla «misura pari alla soglia di usura trimestralmente determinata».

Se tuttavia è agevole intendere la ragione per cui – posta la rilevanza in quanto tale dell’usura sotto il profilo civilistico – venga a rilevare pure quella sopravvenuta (all’epoca di stipulazione del contratto), molto meno lo è quella per cui la struttura rimediale si dovrebbe attestare sul limite massimo del consentito e non su quello del TEGM periodo per periodo corrente. Basta pensare, in proposito, come il nostro ordinamento tradizionalmente tenda, in tema di ravvisati eccessi di squilibrio economico contrattuale, vero i rimedi di ordine equitativo (su questi punti v., di recente, Dolmetta, Problemi dell’usura: sul perimetro del carico economico rilevante, tra l’altro in Dir. banca, 2014, n. 4, p. 681 ss.

3.- Da notare, ancora che nel merito la banca mutuante affidava le sue difese alla norma dell’art. 2 d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in legge 28 febbraio 2001, n. 24. E’ ben noto, peraltro, come tale disposizione non valga affatto a escludere la rilevanza dell’usura sopravvenuta, ma solo a escludere che l’effettivo riscontro della stessa a livello di fattispecie concreta porti all’applicazione (per il profilo civilistico) del radicale rimedio dell’eliminazione di ogni remunerazione, che è previsto nel comma 2 dell’art. 1815 c.c. (e che vale, appunto, solo per i casi di usura originaria).


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