Con la sentenza n. 7130 del 2021, il Tribunale di Milano si è pronunciato in relazione interpretazione dell’art. 2437, comma 3, c.c., in tema di recesso ad nutum nelle società per azioni.
Il Tribunale, in conformità al proprio consolidato indirizzo, di recente confermato dalla sentenza della Cassazione n. 4716 del 2020, ribadisce l’inammissibilità di un’interpretazione estensiva della succitata norma, sì da assimilare una società contratta a tempo indeterminato ad un ente il cui statuto preveda un termine di durata particolarmente lungo.
È illegittimo, dunque, l’esercizio del diritto di recesso ad nutum al di fuori dell’ipotesi specificamente indicata dal comma 3 dell’art. 2437, c.c., residuando per il caso di società contratta per un termine notevolmente esteso le sole altre cause di recesso legali, derogabili o inderogabili, o statutarie. Prospettazione questa che, lungi dal disegnare un vincolo perpetuo di partecipazione a società di capitali, si limita esclusivamente a bilanciare gli interessi in gioco non solo dei soci ma anche di altri soggetti quali i creditori, consentendo tale esercizio ad nutum solo laddove lo statuto sociale non preveda un termine di durata dell’ente.
Nel percorso argomentativo, il Tribunale, afferma la inapplicabilità analogica dell’art. 2285 c.c., dettato in tema di società di persone, nonché l’impossibilità di operare un’interpretazione estensiva sulla base di un presunto intento elusivo celato dietro una durata statutaria particolarmente estesa.
Più nello specifico, infatti, da un lato l’art. 2437, c.c. (così come l’art. 2473, c.c.) – a differenza dell’art. 2285, c.c. – non prevede il diritto di recesso del socio di società avente durata statutaria superiore alla vita umana, dovendosi escludere un’applicazione analogica dell’art. 2285, c.c. alle società di capitali, stante la evidente differenza strutturale tra le due tipologie societarie.
A ciò si aggiunge che il legislatore, nonostante la preesistente disciplina del recesso da società di persone contratte a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci, ha dettato per le società a base capitalistica una differente disciplina, prevedendo il recesso ad nutum nel solo caso di società contratte senza termine, e nulla disponendo per il caso di durata superiore alla vita umana ovvero di durata proiettata in un orizzonte molto lontano (“Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”).
D’altro lato, l’interpretazione estensiva dell’art. 2437, comma 3, c.c. non può nemmeno essere fondata sul presunto carattere elusivo di durate statutarie valutate come “eccessivamente lunghe” in quanto ciò condurrebbe ad un vulnus del sistema interpretativo. Non pare potersi desumere, infatti, dal contesto normativo un parametro certo ed oggettivo per la valutazione di abnormità della durata statutaria, tale non potendo essere né la durata della vita umana, rilevante per una tipologia di enti di ben diversa struttura, né tantomeno la tipologia dell’oggetto sociale, generalmente riferito ad attività imprenditoriali di per sé suscettibili di sviluppo per un tempo indeterminabile.
Se il legislatore della riforma ha certamente riservato un favor all’istituto del recesso nelle società di capitali, è tuttavia necessario ben intendere ed interpretare tale principio, non potendo esso condurre ad una estensione delle norme in tema di recesso al di fuori del perimetro specificamente delineato.
I presupposti per l’esercizio di tale diritto sono stati ben tratteggiati affinché esso sia lo strumento “ordinario” a disposizione del socio di minoranza dissenziente rispetto a fattispecie di modificazioni statutarie o altre vicende significative per l’assetto societario, eventualmente ampliabile pattiziamente oltre le fattispecie normative.
Solo per l’ipotesi di cui al comma 3 dell’art. 2437, c.c. il legislatore ha previsto il recesso ad nutum quale contrappeso “straordinario” alla possibilità (non prevista prima della riforma del 2003) di una durata indeterminata delle società di capitali, a tutela della su richiamata esigenza di disinvestimento del socio rispetto ad un programma sociale non definito nel tempo.
Al contrario, dunque, ove il programma sia definito temporalmente non è consentito estendere tale forma di recesso ad nutum all’ipotesi in esame in quanto si tratta pur sempre di un istituto comportante la possibilità di un “depauperamento della società” (Cassazione n. 13875/2017) e i cui presupposti devono essere interpretati restrittivamente, come da ultimo ribadito anche da Cassazione n. 13845/2019.