Una società, nel corso del 2010, acquistava un credito IVA dalla curatela fallimentare di una s.r.l.
Quest’ultima aveva chiesto il rimborso il detto credito, maturato nel 1998, con modello VR/2008.
L’Amministrazione Finanziaria, con provvedimento notificato nel 2009 alla curatela fallimentare, invitava il curatore a depositare ulteriore documentazione evidenziando che, nelle more, il rimborso avrebbe dovuto ritenersi sospeso.
Successivamente alla notifica dell’atto di cessione del credito, l’Amministrazione Finanziaria, quest’ultima comunicava al cessionario che il rimborso era sospeso, non avendo il curatore prodotto la documentazione integrativa richiesta.
Tale provvedimento, inteso come sostanziale diniego di rimborso, veniva impugnato dalla società cessionaria del credito dinanzi alla competente CTP.
L’Agenzia delle Entrate è risultata soccombente in entrambi i gradi di giudizio di merito giacché, secondo le corti di primo e di secondo grado, il credito IVA si sarebbe consolidato prima della richiesta di ulteriore documentazione.
La stessa, dunque, ha impugnato la sentenza della CTR, lamentando, come unico motivo di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell’art. 10 del D.lgs. n. 313/1997, che, integrando il disposto di cui all’articolo 57 del d.P.R. 633/1972, ha previsto, in caso di richiesta di rimborso dell’IVA detraibile risultante dalla dichiarazione annuale, il differimento dei termini di decadenza dell’attività accertativa per un periodo di tempo pari a quello compreso tra il sedicesimo giorno dalla richiesta documentale dell’Ufficio e la data di consegna di detta documentazione.
Più precisamente, l’Amministrazione Finanziaria sosteneva che i termini decadenziali si applicherebbero solo all’attività di accertamento di un proprio credito e non anche alla contestazione di un debito.
Al riguardo, la Suprema Corte ha affermato preliminarmente che il potere di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria, con riferimento alla dichiarazione IVA per l’anno 1998, si fosse consumato con la decorrenza del quarto anno successivo a quello in cui era stata presentata la dichiarazione, ai sensi dell’art. 57, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972 (vigente ratione temporis). Ne è conseguito, nel caso di specie, che la richiesta documentale fosse intervenuta in epoca successiva alla cristallizzazione del credito e, dunque, era inidonea a prorogare i termini decadenziali.
In merito alla portata applicativa dei termini decadenziali, la Corte riporta come, secondo un proprio orientamento diffuso, il diniego di rimborso di credito IVA soggiaccia ai termini di cui all’art. 57 se esso dipende dalla contestazione della sussistenza dell’eccedenza detraibile indicata dal contribuente (cfr. Cass. n. 8460 del 22/04/2005; Cass. n. 17969 del 24/07/2013); non vi soggiace, invece, se ad essere contestati sono i requisiti per l’accesso al rimborso di cui all’art. 30 del D.P.R. n. 633/1972 (cfr. Cass. n. 194 del 10/01/2004; Cass. n. 29398 del 16/12/2008; Cass. n. 8642 del 09/04/2009).
Alla luce di tali principi, il diniego al rimborso dovrebbe ritenersi non fondato.
Tale orientamento ― osserva tuttavia il Giudice di legittimità ― sembra confliggere con il principio enunciato dalla Cassazione a Sezioni Unite n. 5069 del 15/03/2016, secondo la quale i termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei crediti e non alla contestazione di debiti erariali.
In applicazione di tale principio (espresso inizialmente con riferimento ad un credito IRPEG ma, successivamente esteso ad altri tributi, tra cui l’IVA), l’Agenzia delle Entrate, in caso di richiesta di rimborso di un credito esposto nella dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui è maturato, potrebbe contestarlo anche successivamente al decorrere dei termini decadenziali.
Inoltre, a giudizio degli Ermellini, esisterebbero ulteriori profili di contrasto in termini di ragionevolezza, nella misura in cui, se appare ormai riconosciuto il diritto di emendare in melius la propria dichiarazione da parte del contribuente, anche oltre i termini per rimborso, stante il valore non negoziale di questa (Cfr. Cass S.U. 13378/2016), eccependo errori nell’indicazione di maggiori oneri, simmetricamente all’Amministrazione finanziaria dovrebbe riconoscersi il diritto di opporsi alla richiesta di pagamento di un credito inesistente.
In considerazione del conflitto tra gli orientamenti giurisprudenziali sopra individuati, gli Ermellini hanno trasmesso gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione, affinché valuti l’opportunità di rimettere la causa alle Sezioni Unite.