Il presente contributo analizza l’istituto del trasferimento del lavoratore comparandolo con quello del licenziamento giudicato illegittimo, alla luce della giurisprudenza nazionale e di quella europea.
Nelle categorie per così dire “classiche” del diritto nazionale il trasferimento del lavoratore ed il recesso dal contratto di lavoro per motivi oggettivi rappresentano due istituti nettamente distinti e non sovrapponibili. Infatti, per scomodare principi generali del diritto si potrebbe sin troppo facilmente annotare che il trasferimento è da ricondursi all’esercizio del potere datoriale di incidere nelle situazioni soggettive del lavoratore con atti unilaterali idonei a modificare l’oggetto contrattuale. Al contrario, si potrebbe sempre argomentando per principi generali che il licenziamento rappresenta un atto interruttivo e non modificativo del rapporto di lavoro producendo in radice la risoluzione del vincolo obbligatorio.
Ebbene tale impostazione non trova riscontro nel diritto dell’Unione, che sposa storicamente un’impostazione contraria a quella appena esposta. Infatti, avendo attenzione per la realtà materiale che caratterizza tanto i trasferimenti, quanto i licenziamenti collettivi, il diritto europeo tende ad avvicinare tali situazioni alle volte sovrapponendole, proprio perché “vicine” nella medesima realtà aziendale di crisi e riorganizzazione in cui vengono poste in essere.
Ma come conciliare tali posizioni normative? La recente giurisprudenza domestica ha dato risposta a detto quesito trovando il bandolo della matassa nella nozione stessa di trasferimento di diritto italiano.
Infatti, il trasferimento è l’atto mediante il quale il datore modifica il luogo di lavoro di un dipendente. La giurisprudenza ha inquadrato la fattispecie quale “spostamento definitivo” del lavoratore, ipotesi non espressivamente prevista dalla legge, ma sottoposta ai limiti generali di cui all’articolo 2103 c.c. nonché al più puntuale richiamo di cui all’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori. Il trasferimento, quale espressione della libertà del datore di lavoro di organizzare la propria attività produttiva, non è soggetto ad uno specifico onere di forma, così come non è richiesta alcuna precisazione circa i motivi – anche a seguito di apposita richiesta da parte del lavoratore – di tale scelta. Nell’ipotesi in cui sia contestata la legittimità dell’atto, allora il datore è obbligato ad allegare le ragioni che lo hanno determinato, provando l’effettività delle esigenze tecniche, produttive o organizzative.
Ribadita l’insindacabilità del datore circa l’opportunità del trasferimento, l’imprenditore è comunque tenuto alla verifica di molteplici soluzioni, direzionando la propria scelta – qualora sia concretamente possibile, nel senso che soddisfi comunque l’esigenza aziendale – a favore del lavoratore, preferendo la modalità per quest’ultimo meno gravosa. L’accertamento giurisdizionale, in ordine alle comprovate esigenze tecniche, produttive e organizzative, indaga non solo la sede di provenienza – e tramite essa la sussistenza dei motivi del trasferimento – ma anche il luogo di destinazione, o meglio la sede, meta del trasferimento, quale unica opzione che realizzi le finalità aziendali a fronte di un indiscutibile impatto nella vita del lavoratore.
La rilevanza che assume il singolo dipendente trasferito non si ferma qui. Le ragioni tecniche aziendali che fondano il trasferimento non posso mai ledere il diritto del lavoratore alla conservazione della sua professionalità, la quale assume carattere prevalente rispetto alle esigenze organizzative. Qualora la scelta del datore abbia una ricaduta dequalificante sul piano della professionalità acquisita dal dipendente, il trasferimento è ontologicamente illegittimo ex articolo 2103 c.c., norma che tutela tra l’altro la non retrocessione della posizione lavorativa precedente.
Le considerazioni sin d’ora riportate sono riconducibili al principio di esercizio dei poteri, conferiti al datore di lavoro, secondo buona fede e correttezza di cui all’articolo 1375 c.c.. Diversamente, l’esercizio delle più che legittime prerogative datoriali concederebbe spazio all’abuso del diritto. La giurisprudenza ravvisa tale istituto, non solo nel fatto che uno dei contraenti abbia avuto una condotta non inidonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, ma anche nell’ipotesi – ben più frequente – nella quale il primo contraente persegua una finalità lecita, il trasferimento del lavoratore, con mezzi non necessari, sproporzionati e comunque non giustificabili secondo i canoni di buona fede e correttezza – per quello che qui conviene – la mancata indagine circa un’alternativa di trasferimento meno gravosa per il dipendente.
Il trasferimento, compiuto senza il vaglio di tutte le soluzioni effettivamente in campo, è illegittimo; il medesimo si traduce infatti in una modica unilaterale delle condizioni di lavoro, difficilmente compatibile con la prosecuzione del rapporto lavorativo per ovvie ragioni sociali e famigliari. Sul punto la giurisprudenza è stata alquanto schietta: è stato ritenuto che la definizione del luogo di lavoro da parte del datore, consistente nel trasferimento di un dipendente in una sede considerevolmente lontana da quella precedente, di fatto rappresenti uno sradicamento del quotidiano centro di vita affettivo del lavoratore.
Orbene, proprio sulla base di tali approdi interpretativi in materia di jus variandi, la giurisprudenza nazionale è arrivata a concludere che il trasferimento collettivo di lavoratori con suddette caratteristiche di fatto celi la reale volontà del datore di lavoro di procedere alla cessazione di tutti i rapporti di lavoro coinvolti. Obiettivo che la prassi ha peraltro sempre visto raggiunto, almeno prima dell’instaurazione di un apposito giudizio.
L’atto espulsivo con i suddetti caratteri di illegittimità si presta ad altri e più elevati richiami di diritto, in particolare a quanto disposto dall’articolo 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che sancisce la tutela in ogni ipotesi di licenziamento ingiustificato. La disposizione, alla luce dei criteri di interpretazione di diritto comunitario, stabilisce un principio – e non un diritto, direttamente azionabile in giudizio – che trova puntuale esplicazione, pertanto anche fondamento di pretese legittimamente perseguibili in giudizio, nella Direttiva 98/50/CE.
Tale normativa predispone un catalogo di diritti informativi a tutela del lavoratore, anche attraverso le rispettive rappresentanze, qualora il datore di lavoro intenda porre in essere una procedura di licenziamento collettivo. La direttiva precisa poi le varie fasi dalla procedura da avviarsi con particolare attenzione alla fase di consultazione delle rappresentanze lavorative. Il campo di applicazione si estende ad ogni atto idoneo a determinare ex ante una modifica sostanziale unilaterale delle condizioni di lavoro, da cui possa ragionevolmente dedursi la cessazione del rapporto di lavoro.
Quindi questo è il fulcro che chiude il cerchio: il trasferimento del dipendente, irragionevolmente distante rispetto alla sede di provenienza, incide radicalmente e maniera univoca sul rapporto di lavoro, motivo per cui deve adottarsi la procedura propria dei licenziamenti collettivi.
La giurisprudenza di legittimità del nostro ordinamento è giunta a questo approdo a seguito dei più recenti arresti della Corte di Giustizia europea. Quest’ultima infatti già nel 2015 così stabiliva “il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientra nella nozione di «licenziamento» di cui all’articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della medesima direttiva, oppure costituisce una cessazione del contratto di lavoro assimilabile a un siffatto licenziamento, a norma dell’articolo 1, paragrafo 1, secondo comma, di detta direttiva” (Corte di Giustizia Unione Europea 11 novembre 2015 C-422/14). Un’ordinanza successiva della stessa Corte ha ribadito la ratio della Direttiva nei seguenti termini “L’obiettivo principale della direttiva consiste nel far precedere i licenziamenti collettivi da una consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e dall’informazione” (Corte di Giustizia Unione Europea 4 giugno 2020 C-32/2020).
La giurisprudenza comunitaria ritiene che il trasferimento di plurimi dipendenti potrebbe porsi in una prospettiva proceduralmente illegittima, considerato che la fase di consultazione è elevata a presupposto di legittimità, necessariamente da svolgersi a valle delle modiche unilaterali.
Considerazioni alternative non sembrano ammissibili. Trasferimenti collettivi siffatti sono qualificabili come licenziamenti collettivi tout court, illegittimi, in quanto intimati in assenza delle usuali procedure; ma v’è un ulteriore pericolo per il lavoratore, il quale, oltre ad essere privato della retribuzione, sarebbe anche impossibilitato ad accedere agli ammortizzatori sociali predisposti.
Il breve testo vuole accendere l’attenzione su un profilo particolarmente delicato, peraltro poco discusso e conosciuto, in quanto la predisposizione di un trasferimento incide sulla posizione lavorativa e sulla sfera privata del dipendente. Il confine tra la tutela dei lavoratori e la libertà di organizzazione dell’impresa passa inevitabilmente da tecnicismi e tecnici.