La disciplina della transazione fiscale si fonda su due principi cardine, la cui osservanza legittima l’accordo di ristrutturazione dei debiti tributari, mentre, specularmente, il loro mancato rispetto lo rende inattuabile. Si tratta del principio della convenienza per l’Erario della transazione proposta, integrato nell’ambito del concordato preventivo da quello della capienza e del rispetto dell’ordine delle cause di prelazione, e del principio del divieto di trattamento deteriore dei crediti fiscali.
1. Il principio della convenienza della transazione per l’Erario rispetto alla liquidazione
Il primo principio è rispettato se la proposta prevede il soddisfacimento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali in misura non inferiore a quella realizzabile attraverso l’alternativa liquidazione, tenuto conto del valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione dell’Erario, attestato da un professionista munito dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), L. fall.. Così come accade per la generalità dei crediti privilegiati a norma dell’art. 160, comma 2, L. fall., il primo presupposto della falcidiabilità dei crediti tributari privilegiati è dunque costituito dall’oggettiva incapienza del valore di realizzo attribuito da un esperto qualificato e indipendente ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione (e dunque, con riguardo a privilegi generali, a tutto il patrimonio del debitore)[1]. In funzione del valore di tali beni è individuabile la quota del credito che può essere soddisfatta a seguito del realizzo dell’attivo e, per differenza, la quota residua che viene degradata al chirografo.
Il fatto che tale presupposti sia stabilito in due norme diverse (l’art. 182-ter e l’art. 160)[2] non implica tuttavia la necessità di far ricorso a due professionisti differenti (in possesso dei requisiti richiesti dall’art. 67, comma 3, lett. d), potendo risultare sufficiente inserire l’attestazione prevista dall’art. 182-ter nella più ampia attestazione predisposta ai sensi dell’art. 160, comma 2, rilevando in essa specificamente le elaborazioni concernenti lo stralcio dei crediti rientranti nell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 182-ter. In quest’ottica è del tutto naturale, ancorché non obbligatorio, che l’attestazione richiesta ai fini della transazione fiscale sia resa dal medesimo professionista che esegue la relazione di stima prescritta dall’art. 160, comma 2, mediante la predisposizione e presentazione di un’unica attestazione, avendo cura di indicare la parte di competenza dell’agente della riscossione e dell’Agenzia delle Entrate (questa possibilità è stata espressamente riconosciuta dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 16/E/2018, a condizione che l’attestazione unica contenga una sezione dedicata al confronto tra l’ipotesi concordataria e quella liquidatoria e la conferma che con la prima l’Amministrazione finanziaria ottenga una soddisfazione maggiore rispetto alla seconda).
Il principio della convenienza assume ancor più rilevanza dopo che, con la Legge n. 159/2020, è stata introdotta nell’art. 180 L. fall. la disposizione per cui il Tribunale può omologare l’accordo di ristrutturazione dei debiti fiscali anche in caso di mancanza di adesione da parte dell’Amministrazione finanziaria, quando il voto è decisivo (o l’adesione è determinante) ai fini del raggiungimento delle percentuali minime dei consensi e la proposta è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.
2. Il principio del divieto di trattamento deteriore dei crediti fiscali privilegiati e chirografari
Il secondo principio è soddisfatto se il trattamento riservato ai crediti erariali privilegiati non è deteriore rispetto a quello destinato ad altri crediti caratterizzati da una posizione giuridica e da interessi economici omogenei (ovverosia sulla base degli stessi criteri di formazione delle classi prescritti dall’art. 160, comma 1, lett. c), L. fall.)[3]: è rispettato quindi se la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie offerti all’Erario non sono inferiori o meno vantaggiosi rispetto a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore e ai creditori chirografari.
Posto che, qualora non si rinvengano crediti “omogenei”, il trattamento di riferimento resta unicamente quello riservato agli altri crediti di rango inferiore[4], giova rilevare al riguardo che le disposizioni sopra citate sono interpretate come espressa deroga al divieto di alterazione dell’ordine delle cause di prelazione sancito dagli artt. 2777 e 2778 c.c.) da chi aderisce alla “tesi della priorità assoluta”, secondo la quale, nell’ipotesi di pagamento parziale dei creditori privilegiati ex art. 160, comma 2, L. fall., non sarebbe legittimo dare luogo al pagamento di un creditore di grado successivo prima di avere integralmente soddisfatto quelli con collocazione precedente: in base a questo indirizzo, infatti, con il secondo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter il legislatore avrebbe inteso ammettere il pagamento (parziale) di crediti assistiti da un grado di privilegio successivo a quello che assiste il credito tributario nonostante il pagamento non integrale del credito tributario, a condizione tuttavia che il trattamento riservato a quest’ultimo non sia deteriore rispetto a quello offerto ai crediti privilegiati di grado successivo[5].
Da parte di chi aderisce alla “tesi della priorità relativa” la condizione imposta nel secondo periodo del comma 1 è invece vista come conferma, in caso di incapienza dell’attivo, della possibilità generale (che discenderebbe dal comma 2 dell’art. 160 L. fall.) di soddisfare un creditore di grado successivo anche senza avere integralmente soddisfatto quelli con collocazione precedente[6], a patto che questi ricevano comunque un miglior soddisfacimento.
Ad ogni modo, in entrambi i casi il trattamento proposto al credito tributario (o previdenziale) privilegiato va confrontato con quello offerto ai crediti di diversa natura assistiti da un grado di privilegio che si collocano in una posizione posteriore secondo l’ordine dettato dagli artt. 2777 e 2778 c.c.
Quanto ai crediti erariali chirografari, l’ultima parte del secondo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter prevede che a essi non può essere applicato un trattamento differenziato rispetto a quello offerto agli altri creditori chirografari e, nel caso di una loro suddivisione in classi, deve essere loro riservato lo stesso trattamento previsto per i creditori chirografari cui è assicurato il trattamento più favorevole.
Tale norma tuttavia non precisava (sino all’entrata in vigore della Legge n. 159/2020) se la prescrizione relativa all’obbligo di applicare il trattamento più favorevole valesse solo per i crediti tributari chirografari ab origine oppure operi anche per la quota dei crediti tributari privilegiati degradata a chirografo per incapienza dell’attivo[7].
In effetti, dalla lettera dell’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter non era dato comprendere:
- se le disposizioni concernenti il divieto di trattamento dei crediti erariali chirografari trovassero applicazione, non solo con riguardo a quelli che sono chirografari sin dall’origine, ma anche con riferimento ai crediti privilegiati divenuti chirografari per effetto della degradazione dipendente dall’incapienza dell’attivo;
- se, invece, le comparazioni previste da tali disposizioni riguardasse esclusivamente, da un lato, il trattamento dei crediti erariali privilegiati ab origine che non subiscono alcuna degradazione (da confrontare con quello degli altri crediti privilegiati) e, dall’altro lato, il trattamento dei crediti erariali chirografari ab origine (da confrontare con quello degli altri crediti chirografari).
Gli effetti pratici discendenti dalle due interpretazioni sono assai diversi: dalla tesi indicata sub b) conseguirebbe, infatti, che a nessuna comparazione sarebbero soggetti i crediti privilegiati degradati in chirografari per incapienza dell’attivo, i quali potrebbero quindi essere soddisfatti anche con una percentuale semplicemente simbolica, notevolmente inferiore a quella offerta agli altri creditori chirografari.
Da tempo chi scrive sostiene che la tesi corretta è quella sopra indicata sub a), perché l’altra svilirebbe radicalmente la previsione legislativa che stabilisce la costituzione obbligatoria di una apposita classe avente a oggetto i crediti erariali privilegiati degradati (a causa dell’incapienza dell’attivo) in chirografari: in tal caso, infatti, nessun debitore offrirebbe per il soddisfacimento di questi ultimi più di una misera percentuale, generandosi in questo modo il medesimo effetto che si otterrebbe in assenza della costituzione di tale classe. Se così fosse, inoltre, la comparazione, in quanto avente ad oggetto i crediti erariali chirografari sin dall’origine, sarebbe prevista solo per un numero così limitato e irrilevante di crediti, quale è quello dei crediti erariali chirografari ab origine, da rendere sostanzialmente inutile la previsione legislativa di cui trattasi.
Infine, non avrebbe molto senso logico una norma che prevedesse l’obbligo di pagare i crediti erariali chirografari sin dall’origine in misura non inferiore agli altri crediti chirografari, ma, al tempo stesso, consentisse di soddisfare in misura notevolmente inferiore i crediti erariali assistiti da privilegio e divenuti chirografari solo a seguito della degradazione dovuta all’incapienza dell’attivo.
Sulla questione è stata fatta opportunamente chiarezza, in quanto su di essa:
- dapprima si è espressa l’Agenzia delle Entrate che, con la circolare n. 16/E/2018, ha confermato le considerazioni sopra esposte, chiarendo che le regole disciplinanti i crediti di natura chirografaria ab origine, dettate dal comma 1 dell’art. 182-ter, “trovano applicazione anche con riferimento ai crediti privilegiati divenuti chirografari per effetto della degradazione… Ad esempio, se tra i creditori muniti di diritto di prelazione vi è anche l’Agenzia delle entrate e il debitore propone il pagamento del debito tributario nella misura del 30%, il residuo credito, pari al 70%, degraderà al chirografo e confluirà in una apposita classe”;
- poi, con la Legge 27 novembre 2020, n. 159, è intervenuto lo stesso legislatore, il quale, confermando del pari la tesi testé esposta, ha stabilito che le disposizioni di cui trattasi si applicano specificamente ai crediti chirografari “anche a seguito di degradazione per incapienza”.
L’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter stabilisce infine che la quota dei crediti tributari o contributivi privilegiati degradata al chirografo deve essere inserita in un’apposita classe.
Ciò posto, atteso che la degradazione al chirografo fa venire meno la rilevanza del diverso grado di privilegio che assiste ciascun credito tributario, ci si chiede se nell’apposita classe, che accoglie la quota di credito degradata, possano confluire anche i crediti chirografi ab origine e, quindi, se sia legittimo costituire un’unica classe che comprenda sia i crediti tributari chirografari per degrado sia quelli chirografari ab origine (lo stesso discorso vale per quelli previdenziali). Occorre chiedersi inoltre se nella medesima “apposita classe” possono essere inseriti tanto i crediti previdenziali degradati quanto i crediti tributari degradati.
La disamina di queste questioni richiede di considerare che, ai sensi dell’art. 177, comma 1, L.fall., qualora il proponente decida di suddividere i creditori in classi formate secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei[8], “il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto” e “se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi”. In altri termini, nel caso di concordato con più classi di creditori, per l’approvazione del concordato il voto favorevole della maggioranza degli aventi diritto non è di per sé sufficiente, essendo necessario anche il voto favorevole di più della metà delle classi ammesse al voto. Inoltre, il comma 4 dell’art. 180 L. fall. stabilisce che, “se un creditore appartenente ad una classe dissenziente ovvero, nell’ipotesi di mancata formazione delle classi, i creditori dissenzienti che rappresentano il 20 per cento dei crediti ammessi al voto, contestano la convenienza della proposta, il tribunale può omologare il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili”. In considerazione della rilevante ricaduta della suddivisione dei creditori in classi circa la possibilità di prevedere trattamenti differenziati (ex art. 160 L. fall.), la possibilità di contestare la convenienza del concordato e il “peso” sull’approvazione dello stesso, ne viene dunque richiesta la formazione secondo criteri di completa omogeneità[9].
È in questo contesto che si innesta la previsione contenuta nell’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter, la quale, nell’imporre la costituzione di un’apposita classe per i crediti tributari e per quelli contributivi degradati al chirografo, con ogni evidenza risponde allo scopo “di evitare possibili fenomeni di neutralizzazione del voto degli enti interessati e di rafforzarne la posizione, in considerazione della peculiare natura dei relativi crediti, consentendo agli stessi di provocare più agevolmente (con il dissenso e l’opposizione) anche il giudizio del tribunale circa la convenienza della proposta in sede di omologazione”[10]. Così stando le cose, la costituzione di un’apposita classe composta dai crediti tributari degradati al chirografo e dai crediti tributari chirografi ab origine appare allora legittima, in quanto le due categorie di crediti si presentano certamente omogenee sia per posizione giuridica, sia per interessi economici[11].
Inoltre in questo modo si evita una duplicazione di classi (facenti capo al medesimo creditore) che sortirebbe un effetto opposto rispetto a quello desiderato[12]. Infatti, se – come detto – l’obiettivo del classamento obbligatorio è quello di evitare che il voto del Fisco sia “annacquato” con quello spettante agli altri creditori chirografari compresi nella medesima classe, perdendo l’incidenza che il legislatore ha inteso riconoscergli, per converso potrebbe risultare eccessiva l’attribuzione al Fisco di un doppio “peso”, come accadrebbe in ipotesi di costituzione di due apposite classi, una per i crediti privilegiati degradati al chirografo e una seconda per i crediti chirografi ab origine (lo stesso vale per i crediti previdenziali). Né la costituzione di un’unica classe si pone in qualche modo in contrasto con la disciplina dei crediti tributari chirografari previsto dal comma 1 dell’art. 182-ter, giacché – come dianzi esposto – essa riguarda entrambe le categorie.
Atteso che l’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter, nell’imporre il classamento obbligatorio, utilizza la locuzione “apposita classe”, anziché “unica classe”, e che la posizione giuridica e gli interessi economici riferibili ai crediti erariali non sono considerati ex lege omogenei rispetto ai crediti contributivi, è da ritenersi (non solo legittima, ma) obbligatoria la costituzione di due distinte “apposite classi”, una riferita ai crediti tributari e l’altra ai crediti contributivi, al fine di riservare loro la dovuta tutela[13]; ciò alla luce della diversa natura e del diverso significato sociale dei crediti rispettivamente vantati[14]. Del resto, le disposizioni contenute nella norma testé citata, benché riferite ad entrambe le tipologie di crediti, prevedono (parallelamente) la soggezione alle medesime regole, ma non impongono per esse l’unitarietà di trattamento.
3. Natura e utilizzo dei flussi di cassa generati dalla continuità aziendale
L’osservanza del principio della convenienza dei crediti comporta necessariamente, come si è rilevato, un confronto tra l’ammontare del pagamento offerto al Fisco con la proposta di transazione e quello che questi riceverebbe attraverso il fallimento, quale unica alternativa concretamente praticabile, in virtù del patrimonio del debitore in tal caso realizzabile.
Tale confronto, una volta determinato il patrimonio del debitore, richiede inoltre di stabilire i criteri di attribuzione ai creditori del ricavato della liquidazione di detto patrimonio, in ordine ai quali sono state sostenute due diverse tesi:
- la già citata tesi della priorità assoluta, secondo cui il ricavato dovrebbe essere rigidamente destinato ai creditori privilegiati in base all’ordine delle cause di prelazione, con la conseguenza che un credito privilegiato potrebbe essere soddisfatto solo se vengono prima integralmente soddisfatti i crediti privilegiati di rango superiore[15];
- la già citata tesi della priorità relativa, secondo cui il ricavato potrebbe essere invece destinato alla soddisfazione di tutti i crediti privilegiati o chirografari anche in assenza dell’integrale soddisfacimento di quelli di rango superiore, essendo unicamente necessario assicurare al credito privilegiato un trattamento migliore rispetto a quelli di rango inferiore[16].
Chi scrive sostiene da tempo, da un lato, che la “tesi della priorità relativa” non trova conforto nel comma 2 dell’art. 160 L. fall., considerato il soddisfacimento che i crediti di rango superiore riceverebbero alternativamente in caso di fallimento, e, dall’altro lato, che la distribuzione delle risorse finanziarie rientranti nella nozione di “finanza esterna” può essere eseguita senza tenere conto dell’ordine delle cause di prelazione, poiché esse non facenti parte di quel patrimonio che in caso di liquidazione dovrebbe essere ripartito secondo tale ordine[17].
Proprio perché le risorse finanziarie rientranti nella nozione di “finanza esterna” sono sottratte alle regole del concorso e possono essere quindi liberamente utilizzate dal debitore, è dirimente stabilire se in tale nozione rientrino o meno anche i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività da parte del debitore nell’ambito del concordato preventivo in continuità. Anche su tale questione, invero, si registrano due diverse correnti di pensiero:
- secondo un orientamento “restrittivo”, nella nozione di “finanza esogena” rientrerebbero unicamente le risorse finanziarie messe a disposizione da terzi senza vincolo di restituzione, mentre “la prosecuzione dell’attività di impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (art. 2740 c.c.), non creando la prosecuzione dell’attività di impresa un patrimonio separato o riservato in favore di alcune categorie di creditori (anteriori o posteriori alla domanda di concordato). Né pare consentito azzerare in sede concordataria il rispetto delle cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.), che è un corollario della responsabilità patrimoniale”[18]. Per questa corrente di pensiero, dunque, i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività rientrerebbero nella nozione di “nuova finanza” ma non in quella di “finanza esterna” (tuttavia spesso tali termini sono utilizzati anche come sinonimi e possono quindi essere fonte di equivoci; a ben vedere l’espressione più appropriata per qualificare le risorse di cui trattasi, come detto, dovrebbe essere quella di “surplus concordatario”)[19];
- secondo un orientamento più morbido, invece, le risorse finanziarie originate dalla prosecuzione dell’attività di impresa (ovvero i flussi finanziari disponibili o free cash flow), sebbene da essa provenienti, avrebbero natura “esogena”, poiché non fanno parte del patrimonio dell’impresa debitrice all’apertura della procedura[20]. Per questa diversa corrente di pensiero, infatti, il valore del patrimonio del debitore esistente in tale momento costituisce il limite di soddisfazione della garanzia dei creditori prelatizi ex art. 160, comma 2, L. fall. e, perciò, andrebbe tenuto distinto dal valore del patrimonio del debitore successivamente formatosi per effetto della prosecuzione dell’attività, con il quale va invece identificato il “surplus concordatario” al pari degli apporti finanziari esterni al patrimonio del debitore[21]. In altri termini, sulla base di questo indirizzo, al divieto di alterazione delle cause legittime di prelazione e alla regola del concorso non dovrebbero soggiacere le risorse, di qualsiasi natura, che eccedono l’ammontare ricavabile dalla liquidazione dell’attivo (determinato sulla base della relazione prevista dal citato art. 160, comma 2).
Ciò posto, con la circolare n. 16/2018 l’Agenzia delle Entrate aveva precisato che, ai fini della comparazione, l’attestatore deve “tenere conto anche del maggiore apporto patrimoniale, rappresentato dai flussi o dagli investimenti generati dalla eventuale continuità aziendale oppure ottenuto all’esito dell’attività liquidatoria gestita in sede concordataria, che non costituisce una risorsa economica nuova, ma deve essere considerato finanza endogena, in quanto, ai sensi dell’art. 2740 c.c., l’imprenditore è chiamato a rispondere dei debiti assunti con tutti i propri beni, presenti e futuri”[22]. L’Agenzia aveva così mostrato di aderire all’orientamento restrittivo, secondo cui i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività, da parte dell’impresa debitrice nell’ambito di un concordato preventivo in continuità, avrebbero avuto natura “endogena” (in quanto non derivanti da un apporto esterno) e sarebbero quindi da considerare parte del patrimonio di tale impresa a un duplice fine:
- per determinare il valore del patrimonio realizzabile in caso di liquidazione che, ai sensi del comma 1 dell’art. 182-ter, un professionista indipendente deve comparare con l’offerta formulata al Fisco dall’impresa debitrice mediante la proposta di transazione fiscale, allo scopo di attestarne la necessaria convenienza per l’Erario rispetto all’alternativa costituita dalla liquidazione dell’impresa stessa;
- per stabilire se i suddetti flussi possono essere destinati liberamente dall’impresa debitrice al soddisfacimento di alcuni crediti piuttosto che di altri, posto che il patrimonio “endogeno”, a differenza di quello “esogeno”, come detto, almeno secondo l’orientamento più “rigoroso”, dovrebbe essere utilizzato per il pagamento dei creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione previste dalla legge e non liberamente (art. 160, comma 2, L. fall.).
Tale tesi non appare conforme alla ratio dell’art. 182-ter, comma 1, L. fall., che – come detto – richiede all’attestatore di confrontare il trattamento dei crediti tributari contemplato dalla proposta di transazione fiscale con quello discendente dalla liquidazione fallimentare dell’impresa debitrice e, ai fini della determinazione del parametro di raffronto, non può rilevare il “patrimonio futuro” di quest’ultima. Infatti, per quantificare il soddisfacimento derivante dallo scenario alternativo indicato dall’art. 160, comma 2, l’attestatore deve valutare la situazione che si verificherebbe in caso di fallimento del debitore, senza dunque tenere conto della prosecuzione dell’attività attraverso modalità e interventi che sono attuabili nel concordato preventivo (ma non nel fallimento), giacché tra la continuazione dell’attività economica ivi prevista e i flussi finanziari che ne discenderebbero sussiste un evidente rapporto di causa-effetto, nel senso che questi non potrebbero manifestarsi senza l’attuazione del risanamento indicato nel relativo piano: quest’ultimo non è che il frutto della ristrutturazione dell’azienda, delle azioni strategiche volte alla riduzione dei costi e al conseguimento di maggiori ricavi, della conversione di debiti in equity nonché dell’acquisizione di nuovi investimenti – da parte dei soci o di nuovi finanziatori – destinati a sostenere la continuazione dell’attività (che costituisce quindi l’indefettibile presupposto di tutte le suddette misure).
Lo si desume altresì dalle disposizioni contenute negli artt. 104 e 104-bis L. fall., che ammettono la prosecuzione dell’attività economica (nella forma dell’esercizio provvisorio o dell’affitto d’azienda) soltanto a titolo temporaneo, qualora ciò sia considerato (nel primo caso) strettamente necessario per non recare maggiore pregiudizio ai creditori oppure (nel secondo) conveniente per rendere più proficua la vendita del complesso aziendale. In entrambi i casi, la continuazione dell’attività è ammessa soltanto nella prospettiva di conseguire una migliore liquidazione, ma mai in un’ottica di risanamento, che rimane del tutto estranea rispetto alla procedura fallimentare[23]. Ne consegue che le stime effettuate dal curatore (e, prospetticamente, dall’attestatore) non possono riguardare un’azienda in normale esercizio, essendo l’eventuale prosecuzione in via temporanea dell’attività diretta unicamente alla conservazione dell’azienda in uno stato di efficienza, al fine di preservare il valore residuo che ancora c’è (e non per generare nuovo valore)[24].
La situazione cui deve far riferimento è infatti quella prevista dall’art. 105 L. fall., il quale disciplina, appunto, la vendita (mediante procedure competitive) dell’azienda nello stato in cui si trova, in maniera unitaria oppure attraverso singoli rami oppure ancora atomisticamente[25], senza potere considerare gli effetti derivanti dagli atti previsti nella proposta concordataria per riportare l’azienda in una condizione di equilibrio economico. Del resto, se l’attivo discendente dall’ipotesi della liquidazione fallimentare dovesse essere valutato anche assumendo l’avvenuta attuazione delle misure previste nella proposta concordataria, non si vede come essa potrebbe essere definita quale ipotesi alternativa.
Pertanto, poiché i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività economica post risanamento non potrebbero entrare nel patrimonio del debitore in caso di fallimento, essi non possono essere considerati nel computo dell’attivo di liquidazione da destinare al soddisfacimento dei creditori privilegiati e, quindi, nemmeno nella valutazione del trattamento che sarebbe riservato ai crediti tributari in tale ipotesi.
Con la circolare n. 34 del 29 dicembre 2020 l’Agenzia delle Entrate ha rettificato il tiro, affermando che, nonostante la natura “endogena” dei flussi di cui trattasi, essi non concorrono a formare il patrimonio dell’impresa in caso di liquidazione da assumere ai fini della comparazione di cui si è detto. Questa precisazione è assai opportuna, perché ciò che il citato art. 182-ter richiede di comparare è chiaro: il pagamento offerto con il soddisfacimento discendente dall’alternativa liquidazione fallimentare, per quantificare il quale il professionista indipendente, deve considerare la situazione che si verificherebbe in caso di fallimento del debitore, senza tener conto di scenari non realizzabili in tale circostanza, qual è appunto quello della prosecuzione dell’attività attraverso modalità e interventi che sono attuabili nel concordato preventivo ma non nel fallimento, e dunque senza considerare i flussi suscettibili di essere generati solo da tale attività.
Quanto aicriteri di ripartizione del ricavato della liquidazione del patrimonio del debitore, L’Agenzia delle Entrate ha affermato, con la medesima circolare, che la distribuzione delle somme provenienti dai flussi generati dalla continuità aziendale deve comunque avvenire “in modo tale da assicurare un trattamento non deteriore della pretesa tributaria rispetto ai creditori concorrenti”; pertanto, pur continuando ad aderire all’indirizzo che esclude la natura di “finanza esterna” dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività d’impresa (e quindi la possibilità di destinarli liberamente), pare orientarsi verso l’applicazione della tesi della “priorità relativa” circa la ripartizione del “surplus concordatario”.
4. Conclusioni
Pertanto, sulla base degli indirizzi espressi dall’Agenzia delle Entrate, ai fini dell’approvazione della proposta di transazione fiscale formulata nell’ambito di un concordato preventivo in continuità, pur essendo i suddetti flussi da qualificare come “endogeni” e dunque non potendo essere liberamente attribuibiti ai creditori:
- la comparazione, fra il soddisfacimento dei debiti fiscali offerto con la proposta di transazione fiscale e quello alternativamente conseguibile dal Fisco mediante la liquidazione del patrimonio dell’impresa, può essere eseguita senza far concorrere tali flussi alla formazione del patrimonio oggetto di liquidazione;
- è sufficiente prevedere un trattamento dei crediti fiscali più vantaggioso di quello destinato ai crediti privilegiati di grado inferiore e a quelli chirografari, purché sia al tempo stesso migliore rispetto al soddisfacimento che tali crediti riceverebbero mediante l’alternativa liquidazione, e non è necessario stabilirne l’integrale pagamento fino a concorrenza del valore del patrimonio comprensivo di tali flussi (peraltro il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza prevede, con decorrenza da quando entrerà in vigore, che l’alternativa da considerare sarà costituita anche a questo riguardo dalla liquidazione dell’impresa debitrice)[26].
In sintesi l’Agenzia delle Entrate considera i flussi derivanti dalla prosecuzione dell’attività finanza endogena e considera distribuibile ai creditori il ricavato della liquidazione secondo il criterio della priorità relativa.
A modesto avviso di chi scrive, per i motivi sopra esposti, l’approccio dovrebbe essere esattamente l’opposto: l’attribuzione ai creditori dovrebbe avvenire secondo il criterio della priorità assoluta e i flussi dovrebbero essere considerati finanza esogena, con la duplice conseguenza che, da un lato, ogni creditore privilegiato dovrebbe poter essere soddisfatto solo dopo che quelli assistiti da gradi di privilegio superiori sono stati completamente pagati e, dall’altro lato, le somme rivenienti dai flussi prodotti dalla continuità possono essere liberamente destinate al soddisfacimento dei creditori senza dover rispettare l’ordine delle cause di prelazione.
La tesi dell’Agenzia delle Entrate circa la natura “endogena” dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività trae origine dai principi (sopra richiamati) secondo cui (i) la prosecuzione dell’attività d’impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (ex art. 2740 c.c.) e (ii) non sarebbe consentito azzerare mediante il concordato il rispetto delle legittime cause di prelazione (ex art. 2741 c.c.). In realtà, tale posizione non sembra considerare che:
- la regola generale dell’attribuzione ai creditori privilegiati di tutto il patrimonio del debitore fino a concorrenza dei loro crediti posta dall’art. 160, comma 2, L. fall. – che è indefettibile nel concordato liquidatorio, salvo l’apporto di nuova finanza che può essere utilizzata anche senza il rispetto di tale ordine, proprio perché non promana dal patrimonio del debitore e non è vincolata a garantirne le obbligazioni – deve essere nel concordato in continuità limitata, quanto al tempo, alla data della presentazione della domanda di concordato e, quanto all’entità, al patrimonio del debitore esistente in quel momento;
- la verifica della violazione o meno dell’ordine della prelazione deve essere quindi eseguita con riferimento alla predetta data, perché ciò che è valutabile ai fini della capienza è solo il patrimonio del debitore esistente in tale momento, e non quello che residuerà, dopo vari anni e vari interventi altrimenti inattuabili. Infatti, senza concordato il risanamento non sussisterebbe per nulla, o avrebbe quanto meno una ben diversa consistenza, e certamente non sussisterebbero in tal caso i flussi generabili dalla continuità dell’attività, che è incompatibile con la liquidazione;
- la natura “esogena” di un’entrata non dipende dalla fonte dalla quale quest’ultima proviene, ma dal maggior valore derivante dall’attuazione del piano concordatario e comprende dunque anche quello generato dalla prosecuzione dell’attività dell’impresa.
La tesi su cui si fonda l’indirizzo espresso dall’Agenzia circa i criteri di ripartizione del patrimonio del debitore è stata inoltre smentita dalla Corte di Cassazione con la sentenza 8 giugno 2020, n. 10884, secondo cui nel concordato preventivo il soddisfacimento parziale dei creditori muniti di privilegio generale può trovare un fondamento giustificativo solo nell’incapienza del patrimonio mobiliare del debitore; infatti la possibilità di sottoporre a falcidia, a beneficio di altri creditori, crediti garantiti da privilegio generale richiede necessariamente che: o i beni hanno un valore eccedente i crediti garantiti, e allora questi devono essere soddisfatti integralmente, o i beni hanno un valore inferiore rispetto ai crediti privilegiati, e allora i creditori di rango inferiore non possono essere soddisfatti in alcuna misura, risultando prioritario il pagamento di quelli di rango superiore.
[1] È controversa l’obbligatorietà dell’attestazione in presenza di una proposta contenente non la soddisfazione parziale dei crediti tributari e contributivi, ma solo la dilazione del pagamento. Questa ipotesi (su cui si tornerà infra) riguarda più in generale l’applicazione dell’art. 160, comma 2, L. fall. con riguardo al c.d. trattamento temporalmente deteriore o al declassamento finanziario (si veda sul tema S. Bonfatti, “La disciplina dei crediti privilegiati nel concordato preventivo con continuità aziendale”, in www.ilcaso.it, 2013). Secondo E. Stasi (“Transazione fiscale e contributiva nel risanamento imprenditoriale”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 10/2017, pag. 1103), la relazione sarebbe necessaria solo se la dilazione proposta comporta una perdita economica rispetto ai maggiori tempi che occorrerebbe attendere nell’ipotesi della liquidazione fallimentare. Anche secondo M. Spadaro, cit., pag. 13, l’attestazione non dovrebbe essere necessaria in presenza di una mera moratoria annuale ex art. 186-bis, comma 2, ovvero per la dilazione dovuta ai tempi tecnici strettamente necessari per la liquidazione del bene gravato dalla prelazione, pur notando che, nell’ambito della più volte citata sentenza n. 22931/2011, la Corte di cassazione rilevò come, in caso di semplice dilazione, “la misura del soddisfacimento non è legata al valore dei beni o dei diritti suscettibili di liquidazione, ma molto più semplicemente all’incidenza del decorso del tempo, per cui ogni valutazione al riguardo, in vista del successivo computo delle maggioranze, può essere effettuata dagli organi della procedura”.
[2] La ripetizione nell’art. 182-ter della disposizione contenuta nell’art. 160, comma 2, è sembrata a taluni autori una precisazione superflua. Cfr. E. Stasi, “Falcidiabilità dell’IVA nella vecchia e nella nuova disciplina del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione”, in Il fal-limento e le altre procedure concorsuali, n. 1/2020, pag. 85.
[3] La (scarna) giurisprudenza di merito che risulta essersi occupata della questione (Tribunale di Piacenza, 1° luglio 2008; Tribunale di Pavia 8 ottobre 2008; Tribunale di Mantova 30 ottobre 2008; Tribunale di Arezzo, 15 maggio 2009) ha considerato soddisfatto tale requisito quando nel trattamento del credito tributario o previdenziale risulti rispettato l’ordine di soddisfazione previsto dagli artt. 2777 e ss. del codice civile o il grado del privilegio (sulla posizione assunta dalla Corte di cassazione sui criteri di formazione delle classi, in termini più generali, si avrà modo di tornare più avanti). Per la dottrina secondo cui sarebbe invece da escludere che il criterio della posizione giuridica omogenea possa coincidere con la summa divisio tra creditori privilegiati e creditori chirografari (in quanto già di per sé prevista, come in altra occasione rilevato dal Tribunale di Milano, 18 dicembre 2007), esso dovrebbe attenere alla natura oggettiva del credito o del creditore, potendosi così distinguere tra crediti contestati e non, tra crediti muniti di titolo esecutivo e non, tra crediti di fonte contrattuale ed extracontrattuale, tra persone fisiche e persone giuridiche, tra residenti in Italia e non residenti. Cfr. F. Rolfi, “Sui criteri di formazione delle classi nel concordato preventivo”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 12/2018, pagg. 1422 e 1423; A. M. Perrino, “Sub art. 160”, in AA.VV., Codice commentato del fallimento (diretto da G. Lo Cascio), 2017, pag. 2026; M. Arato, “Il piano di concordato”, in AA.VV., Crisi d’impresa e procedure concorsuali (diretto da O. Cagnasso, L. Panzani), III, 2016, pag. 3498; S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Trattato di diritto commerciale (diretto da G. Cottino), XI, 2008, pag. 44. Quanto al criterio degli interessi economici omogenei, la distinzione delle diverse posizioni creditorie va effettuata in base alla categoria di appartenenza dei creditori (istituti di credito, enti previdenziali, fornitori, ecc.) o alla loro riconducibilità ad un particolare ramo d’azienda. Cfr. A. M. Perrino, cit., pag. 2026; C. Mandrioli, “Il piano di ristrutturazione nel concordato preventivo (la ricostruzione giuridico-aziendalistica)”, in AA.VV., La legge fallimentare. D.lgs. 12.9.2017, n. 169. Disposizioni integrative e correttive. Commentario teorico-pratico (a cura di M. Ferro), 2008, pag. 16; M.R. Grossi, La riforma della legge fallimentare, 2005, 142. Per questo secondo tipo di confronto rileverebbe perciò il trattamento offerto agli enti locali, agli enti pubblici non territoriali e agli altri istituti che rendono prestazioni di natura previdenziale o assistenziale, in caso di suddivisione dei creditori in classi. Cfr. M. Spadaro, cit., pag. 13; M. Allena, cit., pag. 159; M. Ferro, R. Roveroni, “Sub art. 182-ter”, in AA.VV., La legge fallimentare. Commentario teorico pratico (a cura di M. Ferro), 2011, pag. 2163; G. Lo Cascio, “Concordati, classi di creditori e incertezze interpretative”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali, 2009, pag. 1135; G. Gaffuri, “La transazione fiscale conquista spazi”, in Il Sole 24-ore del 20 febbraio 2006, pag. 31. Infine, secondo V. Zanichelli, cit., pag. 268, l’ulteriore confronto richiesto nel secondo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter potrebbe trovare unica spiegazione nel garantire al credito tributario o previdenziale il miglior trattamento eventualmente proposto ai creditori che presentino una posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie, senza che assuma rilievo l’ordine dei privilegi.
[4] Cfr. G. Lo Cascio, “Concordati, classi di creditori e incertezze interpretative”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, 2009, pag. 1135.
[5] Cfr. G. Bozza, “Il trattamento dei crediti privilegiati nel concordato preventivo”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 4/2012, pagg. 383-385. A favore di detta tesi con riguardo ai privilegi generali, in presenza di cessio bonorum, si vedano S. Ambrosini, “Il piano di concordato”, in S. Ambrosini, P.G. Demarchi, M. Vitiello, Il concordato preventivo e la transazione fiscale, 2009, pag. 42; P.F. Censoni, “Il concordato preventivo e la prospettiva della ricollocazione del patrimonio dell’impresa in crisi”, in Diritto fallimentare, 2008, I, pag. 866; M. Fabiani, “Concordato preventivo”, in AA.VV., Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja – Branca – Galgano (a cura di G. De Nova), 2014, pag. 247.
[6] Cfr. F. Santangeli, “Auto ed etero tutela dei creditori nelle soluzioni concordate delle crisi d’impresa”, in Diritto fallimentare, I, 2009, pag. 620; V. Zanichelli, cit., pagg. 164 e 165; E. Mattei, cit., pag. 740. A favore di detta tesi si vedano L. Stanghellini, “Proposta di concordato”, in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare (diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani), 2007, pag.194-195; P.G. De Marchi, “Il concordato preventivo alla luce del ‘decreto correttivo’”, in AA.VV., Le nuove procedure concorsuali (a cura di S. Ambrosini), 2008, pag. 495.
[7] Su questa problematica si veda in particolare C. Attardi, “Transazione fiscale: questioni procedurali.”, cit., pagg. 4450 e 4451.
[8] Secondo l’opinione più diffusa, la suddivisione in classi dei creditori rappresenta una mera facoltà per il proponente. In tal senso si vedano ex multis A.M. Perrino, cit., pagg. 2024 e 205; G.B. Nardecchia, Gli effetti del concordato preventivo sui creditori, 2011, pag. 92; A. Penta, cit., pagg. 235 e 236; G. Lo Cascio, cit., pag. 1132; G. Bozza, “La facoltatività della formazione delle classi nel concordato preventivo”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 4/2009, pag. 424 e ss. Secondo M. Fabiani, “Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi ed obbligatorietà delle classi nei concordati”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 4/2009, pag. 437 e ss. la suddivisione dei creditori in classi sarebbe di regola da qualificare come obbligatoria, oppure diventa obbligatoria quando il debitore intenda offrire trattamenti differenziati ai creditori (costituendo così un onere), come rilevato da F. Di Marzio, “Introduzione al concordato preventivo”, in AA.VV., Trattato di diritto delle procedure concorsuali (diretto da L. Ghia, C. Piccininni, F. Severini), IV, 2011, pag. 240. Quest’ultima impostazione è quella che risulta condivisa dalla Corte di cassazione nella sentenza 16 aprile 2018, n. 9378 e nella sentenza 4 febbraio 2009, n. 2706 (il Tribunale di Monza, 7 aprile 2009, aveva invece ritenuto obbligatoria la suddivisione dei creditori in classe in presenza di una rilevante disomogeneità).
[9] Cfr. Cass., 16 aprile 2018, n. 9378. Per M. Fabiani, G. Carmellino, “Il concordato preventivo”, in AA.VV., Le riforme delle procedure concorsuali (a cura di A. Didone), II, 2016, pag. 1697, con la suddivisione dei creditori in classi e l’accettazione di trattamenti differenziati si attua “una deviazione convenzionale dalla regola della par condicio, fondata non più sull’assenso individuale, ma sul consenso della maggioranza, perché la proposta deve avere sempre e soltanto di mira il miglior soddisfacimento dell’intera collettività dei creditori”.
[10] Così testualmente M. Spadaro, cit., pag. 14. In tal senso anche E. Stasi, “Sub art. 182-ter”, cit., pag. 2452.
[11] La Corte di cassazione con la sentenza 16 aprile 2018, n. 9378, recependo l’opinione della dottrina maggioritaria (vedasi la precedente nota n. 53), ha testualmente affermato quanto segue sui criteri di omogeneità richiesti per la formazione delle classi: “L’omogeneità delle posizioni giuridiche, quale criterio volto a garantire sul piano formale le posizioni più o meno avanzate delle aspettative di soddisfo, riguarda la natura oggettiva del credito e concerne le qualità intrinseche delle pretese creditorie, tenendo conto dei loro tratti giuridici caratterizzanti, del carattere chirografario o privilegiato, della eventuale esistenza di contestazioni nella misura o nella qualità del credito, della presenza di un eventuale titolo esecutivo provvisorio. L’omogeneità degli interessi economici, essendo un criterio volto a garantire sul piano sostanziale la par condicio, ha riguardo alla fonte e alla tipologia socio-economica del credito (banche, fornitori, lavoratori dipendenti, ecc.) e al peculiare tornaconto vantato dal suo titolare (in ragione ad esempio dell’entità del credito rispetto all’indebitamento complessivo, della presenza di coobbligati o dell’eventuale interesse a proseguire il rapporto con l’imprenditore in crisi), al fine di garantire secondo canoni di ragionevolezza una maggiore adeguatezza distributiva in presenza di condizioni di omogeneità di posizione. Ne sovviene che i criteri in parola, distinti e concorrenti, debbono essere congiuntamente esaminati per verificare l’omogeneità dei crediti raggruppati, ove l’imprenditore intenda prevedere una suddivisione in classi; tale omogeneità non può però essere predicata in termini di assoluta identità o coincidenza (dato che, ove così fosse, sarebbe possibile formare classi soltanto in presenza di crediti con caratteristiche del tutto uguali), ma consiste invece nella concorrenza di tratti principali comuni di importanza preponderante che rendano di secondario rilievo gli elementi differenzianti e giustifichino secondo criteri di ragionevolezza (o meritevolezza, ex art. 1322 c.c.) una comune sorte satisfattiva delle posizioni riunite all’interno della medesima classe”.
[12] Cfr. M. Spadaro, cit., pag. 14; G. Bozza, “La facoltatività …”, cit., pag. 425.
[13] In tal senso sembra propendere anche M. Spadaro, cit., pag. 15.
[14] Sarebbe invece rinvenibile un’assoluta omogeneità tra crediti tributari e previdenziali secondo L. Del Federico, “La transazione fiscale”, cit., pag. 1881.
[15] Cfr. L. Stanghellini, “Il concordato con continuità aziendale”, in Società, banche e crisi d’impresa, 2014, pag. 1240; A. Rossi, “Le proposte ‘indecenti’ nel concordato preventivo”, in Giurisprudenza commerciale n. 2/2015, I, pag. 334; A. Guiotto, “Destinazione dei flussi di cassa e gestione dei conflitti d’interessi nel concordato preventivo con continuità aziendale”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 8-9/2019, pag. 1099.
[16]Cfr. ex multis A. Guiotto, “Destinazione dei flussi di cassa e gestione dei conflitti d’interessi nel concordato preventivo con continuità aziendale”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 8-9/2019, pagg. 110-114; C. Trentini, I concordati preventivi, 2014, pag. 168; S. Ambrosini, “Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti”, in Tratt. Cottino, 2008, pag. 57.
[17] Sulla base della definizione enunciata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 9373 del 28 giugno 2012, rientrano tipicamente nella definizione di “finanza esterna” gli apporti finanziari di soggetti terzi che risultino neutrali rispetto allo Stato patrimoniale del debitore, se ed in quanto non comportano né un incremento dell’attivo patrimoniale tramite il quale soddisfare i crediti privilegiati, né un aggravio del passivo patrimoniale stante l’assenza del vincolo di restituzione (si tratta, in sostanza, di attribuzioni a fondo perduto o “liberalità”). Per i giudici di legittimità, infatti, “l’intangibilità dell’ordine delle cause di prelazione trova il suo limite nel patrimonio del debitore, e non vieta al terzo di condizionare il suo apporto finanziario alla soddisfazione preferenziale di crediti posposti”.
[18] Così testualmente Trib. Milano, Decreto 15 dicembre 2016. In senso analogo si vedano anche App. Venezia, 12 maggio 2016, e App. Torino, 16 aprile 2019 (in quest’ultima pronuncia è stato osservato che addossare al creditore privilegiato il rischio conseguente alla continuazione dell’attività senza attribuzione delle potenzialità da essa derivanti comporterebbe l’imposizione di un patto leonino). Secondo questo indirizzo interpretativo, per scongiurare il rischio di considerare tutto ciò che deriva dalla continuità aziendale come risorsa esterna e di scardinare così la regola della par condicio creditorum, bisognerebbe “considerare come risorse esterne solo quelle che non derivano geneticamente dal patrimonio dell’impresa che accede al concordato preventivo, ma solo il frutto di interventi di terzi”, non potendosi così rientrare in detta nozione “l’incasso di crediti né gli ‘utili’ della gestione conseguiti nel periodo di esecuzione del piano di concordato” (così M. Arato, “Il concordato con continuità nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 7/2019, pag. 862).
[19] Il concetto di “nuova finanza” risulta infatti più ampio di quello di “finanza esterna”, comprendendo le nuove risorse finanziarie previste nel piano per sostenere la prosecuzione dell’attività e che non rientrano in questa seconda nozione, quali per esempio i prestiti erogati da terzi.
[20] Cfr. Corte App. Venezia, 19 luglio 2019; Trib. Milano, 5 dicembre 2018; Trib. Massa, 27 novembre 2018; Trib. Milano, 3 novembre 2016; Trib. Prato, 7 ottobre 2015; Trib. Treviso, 16 novembre 2015 e 23 marzo 2015; Trib. Rovereto, 13 ottobre 2014; Trib. Torino, 7 novembre 2013; Trib. Saluzzo, 13 maggio 2013. In dottrina si vedano ex multis Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili – Fondazione Nazionale dei Commercialisti, Documento di ricerca “Il trattamento dei crediti tributari nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione” (di P. Rossi), 20 febbraio 2019, pagg. 10 e 11; E. Stasi, “Transazione fiscale nelle procedure concorsuali”, in il fallimentarista, 9 maggio 2019; M. Terenghi, “Finanza esterna, ordine delle cause di prelazione e flussi di cassa nel concordato con continuità”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 3/2019, pagg. 387 e 388; S. Guarino, “Concordato con continuità, surplus e cause legittime di prelazione”, in Corr. Trib., n. 38/2018, pagg. 2903 – 2905; G. D’Attorre, “Ricchezza del risanamento imprenditoriale e sua destinazione”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 10/2017, pagg. 1015 ss.
[21] Rileva il Tribunale di Milano (6 dicembre 2018) che i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività economica, la quale a propria volta è stata resa possibile unicamente per effetto dell’apporto di un soggetto terzo, sono anch’essi classificabili come “finanza esterna”, per il semplice fatto che non esisterebbero in assenza di tale apporto.
[22] Nella predetta circolare è richiamato un passaggio della sentenza n. 9373 del 28 giugno 2012, con cui la Cassazione si è occupata della necessità di rispettare o meno la regola di cui all’art. 160, comma 2, L. fall. con riguardo all’apporto finanziario del terzo (che costituisce la fattispecie tipica di “finanzia esterna”). I giudici di legittimità hanno al riguardo ritenuto che “l’apporto del terzo si sottrae al divieto di alterazione della graduazione dei crediti privilegiati solo allorché risulti neutrale rispetto allo stato patrimoniale della società”, ovvero a condizione che l’intervento finanziario sia utilizzato per pagare direttamente i debiti della società senza comportare una variazione nell’attivo e nel passivo del debitore.
[23] In proposito si vedano S. Pacchi, “La liquidazione dell’attivo con particolare riferimento all’azienda”, in Diritto fallimentare e delle società commerciali, n. 1/2016, pagg. 1 ss.; F. Fimmanò, “La vendita fallimentare dell’azienda”, in Contratto e impresa, n. 2/2007, pag. 530.
[24] Al riguardo, come rilevato nelle “Linee guida per la valutazione di aziende in crisi”, elaborato dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili e dalla Società Italiana dei Docenti di Ragioneria ed Economia Aziendale, “Il professionista deve tenere conto della reale situazione in cui versa l’azienda o il ramo di azienda che si intende cedere o affittare o conferire” e nel caso di affitto d’azienda “deve considerare l’effettiva capacità di creazione dei flussi finanziari attesi nell’orizzonte interessato, senza considerare i benefici apportati dalla possibile gestione del terzo cessionario o affittuario. L’affitto di azienda deve essere valutato considerando le finalità conservative e di mantenimento dell’efficienza dei complessi aziendali, nonché dei costi di manutenzione ordinari e straordinari che il terzo potrebbe essere tenuto a sopportare o assumere a proprio”.
[25] Poiché l’unica soluzione alternativa è quella della liquidazione fallimentare, il valore dell’attivo da liquidare corrisponde sostanzialmente al prezzo ottenibile dalla cessione dell’azienda in base all’esito della procedura competitiva. Cfr. S. Ambrosini, “Concordato preventivo con continuità aziendale: problemi aperti in tema di perimetro applicativo e di miglior soddisfacimento dei creditori”, in blog.ilcaso.it, 25 aprile 2018.
[26] Su queste tematiche si vedano in particolare M. Ratti, A. Pezzano, “L’irrealizzabile esecuzione del concordato preventivo: il fallimento senza risoluzione”, il il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 6/2018, pag. 731 e ss.