In materia di operazioni infragruppo tra società non residenti nel territorio dello Stato, la ratio della disciplina (art. 110, comma 7 T.U.I.R.) è rinvenibile nella salvaguardia del principio della libera concorrenza, enunciato nell’art. 9 del Modello di Convenzione OCSE, che comporta la sottoposizione a tassazione degli utili derivanti da dette operazioni concluse a condizioni diverse da quelle che sarebbero state convenute fra imprese indipendenti in transazioni comparabili. Si tratta quindi di verificare la sostanza economica dell’operazione intervenuta e di metterla a confronto con analoghe operazioni realizzate, in circostanze comparabili, in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e di valutarne la conformità a queste.
Questo in principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento.
Il contenzioso traeva origine dall’impugnazione di un accertamento ai fini IRAP, emesso dall’Agenzia delle Entrate, del maggior valore della produzione netta derivante dall’applicazione dell’art. 110, comma 7 T.U.I.R., dove l’Amministrazione Finanziaria sosteneva la non congruità del prezzo praticato dalla Società ricorrente nelle operazioni con consociate estere (maggiori royalties in percentuale sul fatturato) rispetto al “valore normale”, ovvero al prezzo di libera concorrenza.
La contribuente risultava soccombente in entrambi i gradi di merito.
In particolare, la Commissione Tributaria Regionale competente sosteneva come l’Erario avesse solo l’onere di provare che le transazioni contestate fossero avvenute all’interno di un gruppo societario, mentre in capo al contribuente vi era l’onere di fornire la prova che il prezzo fissato fosse aderente alle condizioni di mercato, ovvero “normale”, cosa che, nel caso di specie, non era avvenuta.
Sul punto, la società argomentava come la “normalità” dovesse ritenersi rispettata in quanto il prezzo di cessione delle royalties della controllante sul marchio dei prodotti da distribuire da parte delle sue controllate estere rispettava le condizioni di mercato, in quanto si giustificava con la necessità di garantire a queste ultime una maggiore competitività sul mercato di riferimento.
Tale esigenza, tuttavia, a parere dei giudici di merito, rappresentava una valida argomentazione se applicata in un lasso temporale limitato; differentemente, non giustificava, come nel caso di specie il mantenimento di tali prezzi senza limite, creando una distorsione della libera concorrenza.
La Società ricorreva infine per la cassazione della pronuncia di appello, dolendosi, per quanto di interesse, della violazione e falsa applicazione degli articoli 9 e 110 del d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 nonché 11-bis del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 (vigente ratione temporis), avendo, a giudizio della ricorrente, errato la CTR nel ritenere che la riduzione delle royalties operata a livello di gruppo non potesse integrare i caratteri della “normalità” insiti nelle menzionate disposizioni.
La Suprema Corte ha confermato la posizione del giudice di secondo grado, argomentando come, più in generale, la ratio della disciplina interna sia da rinvenirsi nella tutela del principio di libera concorrenza, come incardinato nell’articolo 9 del modello convenzionale OCSE.
Quanto al riparto dell’onere probatorio, sono richiamati conformi precedenti di Legittimità (Cfr. Cass. 18932/2015, 5645/2020) che convergono nel ritenere l’Amministrazione finanziaria onerata della sola prova dell’esistenza delle transazioni infragruppo, e non di un maggior vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, non trattandosi di disciplina antielusiva; sarà poi lo stesso contribuente a dover dimostrare la conformità al principio di libera concorrenza delle condizioni applicate alle transazioni infragruppo.
Nel caso di specie, avente ad oggetto royalties calcolate sul fatturato delle consociate, il valore “normale” della transazione commerciale infragruppo di cui all’art. 9, comma 3 del T.U.I.R., doveva essere determinato, come già affermato dalla richiamata giurisprudenza, in base al metodo del prezzo di rivendita, il cosiddetto “Resale Price Method” (RPM), in aderenza a quanto previsto nei criteri di cui alla Circolare n. 32 del 22 settembre 1980 e del Rapporto OCSE del 1995.
La Corte ha evidenziato poi che un contratto di licenza dipenda essenzialmente dalle previsioni del risultato che può essere conseguito dal licenziatario nel territorio al quale si riferisce il diritto di sfruttamento.
Sul punto, devono essere elaborati dei metodi sussidiari di valutazione, che traggono riferimento sempre al prezzo di libera concorrenza.
La Corte di Cassazione fa nuovamente riferimento alla Circolare 32/1980, nella quale si osserva come il canone concernente l’utilizzazione di beni immateriali risenta delle caratteristiche specifiche del settore economico al quale il diritto immateriale si riferisce, oltre al fatto che nella maggior parte dei casi questo viene commisurato in misura percentuale al fatturato del licenziatario.
Di talché, il riferimento a tali indici dovrebbe costituire il dato iniziale per la valutazione concernente il “valore normale” da accertare con riferimento alla singola transazione.
In conclusione, viene evidenziato come non possano costituire argomentazione valida i vantaggi compensativi offerti dall’attività di direzione e coordinamento svolta nell’ambito di un gruppo di società.
Ancorché questi rilevino certamente nel diritto societario, devono infatti essere scrutinati secondo le peculiarità dell’ordinamento tributario, volto, come detto, alla salvaguardia del principio di libera concorrenza.
Del resto, le limitazioni poste dalla disciplina domestica in materia di prezzi di trasferimento sono state giudicate rispettose delle libertà fondamentali dell’Unione, nei limiti in cui queste siano necessarie a garantire la corretta ripartizione del potere impositivo tra i vari Stati, e fintanto che consentano al contribuente di fornire adeguata prova contraria delle ragioni commerciali sottese alle transazioni, senza eccessivi aggravi amministrativi. (CGUE causa C-558/19).
Nondimeno, l’eventuale presenza di una policy aziendale non può essere considerata ai fini giustificativi per derogare al menzionato principio del prezzo di libera concorrenza, che deve essere ricercato nel confronto con transazioni aventi ad oggetto beni e servizi della stessa specie, allo stesso stadio di commercializzazione, nello stesso tempo e mercato (Cass. n. 9615/2019).