Introduzione
La vexata quaestio del trattamento fiscale da riservare agli importi spettanti in caso di violazione delle c.d. clausole di garanzia nei contratti di cessione di azioni e/o quote è tornata a interessare il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, per effetto della recente risposta a interpello del 14 marzo 2022, n. 110/E (“Risposta”), con cui l’Agenzia delle Entrate ha disatteso la posizione assunta dalla Corte di cassazione con la sentenza del 13 agosto 2020 n. 17011, che sembrava aver portato a soluzione i dubbi circa la corretta qualificazione fiscale degli importi in parola.
Il presente contributo è volto fornire una panoramica critica delle ricostruzioni interpretative adottabili e delle conseguenti implicazioni nel contesto della negoziazione privata.
La funzione delle clausole di garanzia
Come noto, le clausole di garanzia configurano patti contrattuali che correlano un’obbligazione di pagamento al verificarsi (o al mancato verificarsi) di un determinato evento indipendentemente dall’imputabilità della condotta ad una o all’altra parte, dunque senza possibilità di fornire prova liberatoria[1].
La previsione delle clausole di garanzia nei contratti di compravendita azionaria ha la finalità di assicurare il compratore in ordine alla passata corretta gestione della società target e all’insussistenza di passività ulteriori rispetto a quelle già note in quanto contabilizzate. Funzione precipua di tali clausole è quindi quella di salvaguardare gli assetti negoziali pattuiti dalle parti in sede di sottoscrizione del contratto dall’eventualità in cui il corrispettivo inizialmente convenuto – parametrato alla consistenza patrimoniale dichiarata della società target – si sia rivelato successivamente non in linea con il suo valore effettivo.
La necessità di prevedere tali clausole è legata al fatto che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, il contratto di cessione azionaria ha come oggetto “immediato” la partecipazione sociale e solo in via mediata la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta[2]. Conseguentemente, da un punto di vista giuridico, la cessione ha l’effetto di trasferire le attività e le passività societarie soltanto in via indiretta[3], poiché l’acquisto della titolarità della partecipazione non attribuisce la proprietà dei beni sociali, i quali restano, invece, direttamente in capo alla società[4].
Il contratto di cessione azionaria, dunque, non garantisce automaticamente l’acquirente circa l’effettiva consistenza del patrimonio della società target. Di conseguenza, qualsiasi eventuale minor valore di quest’ultima rispetto al corrispettivo convenuto dalle parti non consente l’applicabilità della normativa legale apprestata in materia di vizi della cosa compravenduta, ai sensi degli artt. 1490 e ss., c.c.[5].
Ciò premesso, laddove a seguito del perfezionamento della cessione si manifestassero passività non dichiarate a causa di eventi precedenti rispetto al trasferimento, la previsione delle clausole di garanzia comporta in capo al cedente l’obbligo di corrispondere all’acquirente una determinata somma di denaro, solitamente pari al danno o alla perdita che la società target ha subìto.
La qualificazione fiscale delle clausole di garanzia: recenti evoluzioni interpretative
La corretta qualificazione fiscale degli importi erogati per effetto della violazione delle clausole di garanzia è stata (ed è tuttora) oggetto di un annoso dibattito in dottrina e in giurisprudenza, ad oggi non ancora sfociato in una posizione condivisa.
Tale incertezza interpretativa deriva, in particolare, dal diverso approccio che nel tempo è stato adottato al fine di qualificare fiscalmente gli importi in oggetto, alternativamente focalizzato sulla ricostruzione della natura civilistica delle clausole che ne comportano la corresponsione ovvero sugli effetti sostanziali derivanti dal relativo pagamento.
In virtù di una prima impostazione (di carattere civilistico-formale), gli indennizzi erogati a fronte della violazione delle clausole di garanzia avrebbero natura eminentemente assicurativa, essendo finalizzati a risarcire il cessionario, reintegrandolo in tutto o in parte del danno subito a fronte di passività sopravvenute riferibili alla gestione della società target anteriore all’acquisto[6].
Una seconda interpretazione dottrinale[7] e giurisprudenziale[8] valorizza invece l’effetto economico prodotto dal pagamento degli indennizzi, concludendo per la qualificazione di questi ultimi quali rettifiche del prezzo di cessione. In base a questo approccio, in particolare, non vi sarebbe differenza ai fini fiscali tra gli importi in argomento e i pagamenti dovuti a fronte della previsione delle clausole di c.d. “aggiustamento prezzo” (le cd. price adjustment clauses), in base alle quali il corrispettivo spettante a fronte della compravendita azionaria viene fatto dipendere, in ultima analisi, da eventi futuri legati all’andamento finanziario della società target. Tale ricostruzione poggia dunque sul fatto che, in entrambi i casi, l’effetto prodotto sarebbe quello di riequilibrare i rapporti finanziari tra le parti, alterati da eventi sconosciuti al momento del perfezionamento del negozio e che, se noti a tale data, avrebbero portato i contraenti a regolamentare diversamente le condizioni economiche della compravendita sin dall’inizio[9].
I due orientamenti descritti si differenziano dunque per l’interpretazione attribuita al titolo da cui discende l’obbligo di pagamento, alternativamente considerato il risarcimento del danno consistente nella violazione delle garanzie prestate in origine (prima impostazione) ovvero la ripetizione di indebito (seconda impostazione)[10].
Ebbene, la differenza tra i due approcci interpretativi prospettati, lungi dall’essere meramente formale, ha conseguenze sostanziali dal punto di vista fiscale, ed in particolare sul piano dell’imposizione diretta[11]. Invero, privilegiando il primo approccio rassegnato – per così dire, formalistico – gli indennizzi non potrebbero che avere natura fiscale di componenti positive di reddito, imponibili ai fini IRES in capo al cessionario quali sopravvenienze attive ex articolo 88, comma 3, lett. a), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“TUIR”), a mente del quale sono qualificate come sopravvenienze attive imponibili, inter alia, “le indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, di danni diversi da quelli considerati all’art. 85, comma 1, lett. f) e all’art. 86, comma 1, lett. b)”. Simmetricamente, in capo al cedente si verificherà l’emersione di una sopravvenienza passiva, di cui all’articolo 101, comma 4, del TUIR, pari all’importo dell’indennizzo corrisposto.
Diversamente, avallando il secondo filone interpretativo, il pagamento degli indennizzi comporterebbe, per il cessionario, l’effetto – meramente patrimoniale – di ridurre il valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione compravenduta, per come determinato ai sensi dell’articolo 110 del TUIR, rilevante ai fini della plusvalenza (o minusvalenza) realizzata in sede di successiva cessione della partecipazione stessa.
Nell’ambito di tale dibattito, la Corte di cassazione è da ultimo intervenuta con la sentenza n. 17011 del 2020, che assume particolare rilevanza non già in relazione alla posizione adottata in merito alla natura giuridica delle clausole di garanzia – allineata a propri precedenti arresti – quanto piuttosto alle motivazioni spese per supportare la qualificazione fiscale degli indennizzi.
In dettaglio, la pronuncia sposa pienamente la prima delle tesi esaminate, che come visto riconosce alle clausole in esame un’eminente funzione di garanzia di natura assicurativa, in base alla quale “il cedente assume un autonomo e specifico obbligo di indennizzo (altrimenti estraneo all’oggetto della garanzia legale cui il venditore è tenuto nei confronti del compratore) rappresentato dal reintegro, totale o parziale, di passività sopravvenute”[12]. Conseguentemente, a parere della Corte, l’obbligazione che ne deriva (i.e., al pagamento degli indennizzi), si configura come una vera e propria prestazione risarcitoria.
A fronte di tale ricostruzione, la sentenza giunge quindi (coerentemente) ad affermare che, sul piano fiscale, gli importi corrisposti all’acquirente non possono qualificarsi alla stregua di “aggiustamenti prezzo”, dovendo al contrario assumere rilevanza reddituale in capo a quest’ultimo quali sopravvenienze attive imponibili ai fini IRES.
L’aspetto di maggiore interesse della sentenza in rassegna è legato al fatto che, in sede motivazionale, se da una parte viene rilevata la necessità di distinguere sul piano civilistico le clausole di garanzia da quelle di aggiustamento del prezzo, dall’altra viene riconosciuto, implicitamente, che per effetto del pagamento degli indennizzi dovuti a fronte della violazione delle garanzie contrattuali si determina, di fatto, una modifica dell’assetto economico originariamente convenuto in sede di compravendita. La sentenza fa quindi rigidamente discendere dalla riconosciuta natura indennitaria delle clausole di garanzia la valenza reddituale dei pagamenti dalle stesse derivanti, senza attribuire alcun rilievo al fatto che la loro funzione economica è, nei fatti, equiparata a quella delle clausole di aggiustamento del prezzo.
Si tratta, a parere di chi scrive, dell’aspetto di maggiore criticità della ricostruzione compiuta dai Giudici di legittimità. Invero, per quanto ampia sia la rilevanza da attribuire alla qualificazione civilistica di una determinata fattispecie (nel caso di specie, le clausole di garanzia), non sussiste alcun obbligo normativo né un principio generale nell’ordinamento tributario che imponga di trattare fiscalmente le obbligazioni derivanti da tale negozio alla stessa stregua del suo inquadramento civilistico-formale[13].
Si ritiene infatti che il regime fiscale applicabile ad una certa fattispecie non possa prescindere dalla natura sostanziale delle prestazioni che da essa discendono. Pertanto, la relativa qualificazione fiscale dovrebbe essere determinata, caso per caso, privilegiando l’aspetto funzionale del negozio considerato, e ciò anche prescindendo dal nomen iuris (convenzionalmente) attribuitogli dalle parti. Ciò sarà possibile, evidentemente, solo a fronte della valorizzazione degli interessi tutelati dalla normativa civilistica applicabile e di un’adeguata ponderazione del contenuto economico della fattispecie trattata[14].
Di tali criticità ricostruttive sembra essere aver preso atto l’Agenzia delle Entrate, intervenuta recentemente proprio in merito alla qualificazione fiscale degli importi corrisposti a fronte della violazione delle clausole di garanzia. Con la Risposta, l’Amministrazione finanziaria ha infatti espresso considerazioni diametralmente opposte rispetto a quelle rese con la sentenza esaminata. Come si vedrà, i chiarimenti resi rivestono estremo interesse interpretativo. Nonostante sul punto fosse già in precedenza intervenuta – in senso conforme – la Direzione regionale della Lombardia con risposta a interpello n. 956-2412 dell’1 luglio 2021, da più parti si era auspicato che i chiarimenti allora resi fossero recepiti anche al livello dell’Amministrazione finanziaria centrale[15].
Ciò premesso, con la Risposta l’Agenzia delle entrate – investita della questione qualificatoria in oggetto – ha accolto la tesi interpretativa avanzata dal contribuente (cessionario di un pacchetto partecipativo) e attribuito natura patrimoniale – e non reddituale – agli importi corrisposti a titolo di indennizzo, riconoscendone ai fini fiscali la natura di componenti rettificative del costo di acquisto delle partecipazioni compravendute.
L’iter argomentativo che permea tali conclusioni risulta a nostro parere del tutto condivisibile. Invero, esso poggia sul presupposto che, nel caso analizzato, fosse ravvisabile una sostanziale identità di ratio tra la previsione delle clausole di garanzia e quelle di “aggiustamento prezzo”, con ciò escludendo che il pagamento degli indennizzi configurasse una forma di risarcimento qualificabile fiscalmente in capo al cessionario come sopravvenienza attiva di cui all’articolo 88, comma 3 del TUIR[16].
Ciò in quanto, secondo l’Amministrazione finanziaria, sarebbe necessario prescindere dalla distinzione – di matrice puramente civilistica – tra gli “indennizzi” derivanti in senso lato dalla violazione delle clausole di garanzia e i pagamenti derivanti dalla lesione delle c.d. clausole di prezzo, apposte nel contratto per consentire l’aggiornamento della situazione economico-finanziaria della società le cui azioni sono compravendute, nel caso in cui essa subisse delle variazioni successivamente alla definizione dell’operazione.
Al contrario, dando preminenza alla funzione economica assolta dagli indennizzi – il cui scopo essenziale è “adeguare il valore economico della partecipazione e, di conseguenza, il corrispettivo di vendita” – l’Amministrazione finanziaria ha concluso che gli stessi dovessero essere assoggettati “alla medesima disciplina fiscale che ha regolato il concorso alla formazione del reddito del componente che lo stesso va a rettificare”[17]. Pertanto, per il cessionario l’indennizzo comporterebbe una riduzione del costo della partecipazione, mentre per il soggetto cedente una riduzione della base imponibile della plusvalenza ritratta al momento della cessione. Quale logico corollario, in capo al cedente che avesse beneficiato del regime di participation exemption di cui all’articolo 87 del TUIR in relazione al capital gain in origine realizzato, la componente “indennizzo” successivamente pagata sarebbe deducibile nella misura del 5% del relativo ammontare, nel limite del valore del capital gain in precedenza conseguito[18].
Merita peraltro osservare come tali chiarimenti siano stati resi nella peculiare fattispecie di cessionario IAS/IFRS adopter e in cui l’indennizzo ricevuto era transitato a conto economico[19]. L’Amministrazione finanziaria ha condivisibilmente escluso che tale trattamento contabile potesse ostare alla ricostruzione sin qui illustrata, in virtù della deroga al principio di derivazione rafforzata (di cui all’articolo 83 del TUIR) prevista per le operazioni di trasferimento delle partecipazioni ai sensi dell’art. 3, comma 3, del Decreto ministeriale 1 aprile 2009, n. 48 (“Operazioni tra soggetti che redigono il bilancio in base agli IAS e soggetti che non li applicano”).
In base a tale disposizione, fermi restando i criteri di imputazione temporale previsti dagli IAS, il regime fiscale delle operazioni di trasferimento di partecipazioni deve essere individuato a prescindere dalla rilevazione contabile delle stesse, per evitare che, laddove le parti adottino principi contabili differenti, possano determinarsi distorsioni in sede di applicazione di “alcuni istituti di carattere fiscale che per le loro caratteristiche impongono un identico trattamento per tutti i partecipanti”[20].
In virtù di tale principio, l’Agenzia delle entrate giunge quindi ad affermare che il passaggio a conto economico degli indennizzi in capo al cessionario IAS adopter non incide sul regime fiscale agli stessi applicabile, poiché diversamente si determinerebbe una distorsione nell’applicazione del regime di participation exemption, cioè a dire di un “istituto (…) che, qualora non applicato coerentemente a prescindere dal sistema contabile adottato, potrebbe[ro] determinare asimmetrie impositive”[21].
Sotto altro profilo, ed in particolare con riferimento alla rilevanza degli indennizzi ai fini IRAP, l’Agenzia delle entrate conclude che, proprio in virtù del transito a conto economico degli importi ricevuti, questi ultimi dovessero assumere rilevanza in capo al cessionario in virtù del c.d. principio di “presa diretta”, ai sensi dell’articolo 5, commi 1 e 2, del Decreto Legislativo 15 dicembre 1997, n. 446[22].
Conclusioni
Dalla breve ricostruzione sopra delineata, emerge con evidenza come il contesto interpretativo rilevante ai fini della qualificazione fiscale degli indennizzi sia allo stato quanto mai incerto.
Ciò posto, pur prendendo atto dell’orientamento espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza esaminata, si ritiene che al fine di attribuire una corretta qualificazione fiscale agli indennizzi non sia possibile prescindere dall’adozione di un approccio sostanziale, che dia rilievo alla natura economica di tali importi piuttosto che al nomen iuris attribuito alle clausole da cui origina l’obbligo della relativa corresponsione[23].
Si ritiene infatti che, indipendentemente dalla modalità con cui le parti hanno qualificato, da un punto di vista contrattuale, l’obbligazione assunta ad hoc al pagamento dell’indennizzo, il trattamento fiscale da riservare a quest’ultimo non possa che dipendere solo ed unicamente dal contenuto sostanziale e dalla finalità dell’obbligazione in argomento[24].
Pertanto, in conformità all’indirizzo espresso dall’Agenzia delle Entrate, qualora le clausole di garanzia contenute nei contratti di cessione azionaria abbiano, in effetti, finalità di riequilibrio contrattuale, rettificando le condizioni economiche originarie della compravendita a fronte della sopravvenuta scoperta di una passività già esistente, in capo al cessionario il pagamento dell’indennizzo non può che avere l’effetto (meramente patrimoniale) di incidere sul prezzo della partecipazione riducendone il costo fiscale. In tal caso, da un punto di vista economico-tributario si assisterà infatti ad un “aggiustamento” corrispondente ad una rettifica ex post del valore economico della società compravenduta[25].
Ad ulteriore supporto di tale posizione interpretativa depone, a nostro parere, un’ulteriore assorbente considerazione di natura sistematica. Come visto, attribuire ai fini fiscali natura risarcitoria agli indennizzi – sposando l’approccio adottato dalla Corte di cassazione – ne comporterebbe l’impossibilità a priori di dedurne quota parte (i.e., il 5%) qualora il trasferimento partecipativo originariamente perfezionato avesse avuto i requisiti per accedere al regime di participation exemption. Tale conseguenza appare tuttavia in contrasto con la ratio del regime di esenzione da ultimo richiamato, introdotto, inter alia, con la finalità di “incentivare i trasferimenti aziendali per mezzo della cessione delle partecipazioni societarie che li rappresentano”[26]. Infatti, se è vero che il pagamento degli indennizzi comporta, nella sostanza, un aggiustamento delle condizioni economiche iniziali della compravendita, avente causa in un vizio preesistente ma all’epoca non noto, allora – nella sostanza – la previsione dell’eventuale obbligo di corrisponderli ha una diretta connessione con il meccanismo di formazione del prezzo ed è funzionale ad agevolare la circolazione azionaria, poiché tutela l’acquirente da possibili risvolti patologici del rapporto negoziale[27]. Pertanto, a nostro avviso, sottrarre al “sistema” della participation exemption gli indennizzi e attribuire loro una valenza puramente reddituale determinerebbe un vulnus al regime di esenzione potenzialmente idoneo a scoraggiare il trasferimento partecipativo, in quanto tale non coerente con la ratio della participation exemption.
In conclusione, si ritiene quindi fuorviante attribuire in ogni caso una differente qualificazione fiscale agli indennizzi a seconda che essi siano classificati come “indennizzi previsti da clausola di garanzia” o come indennizzi derivanti da una “clausola di prezzo”, nella misura in cui tali importi di denaro costituiscano, nella sostanza, una modifica del prezzo inizialmente pattuito tra le parti con il contratto di cessione.
A valle di queste considerazioni e nonostante i condivisibili chiarimenti resi con la Risposta, non può non osservarsi come sussista ad oggi una notevole incertezza in merito all’inquadramento fiscale degli importi erogati a fronte della violazione delle clausole di garanzia. Pertanto, appare quantomai opportuna l’adozione di un approccio prudenziale nella redazione dei contratti di cessione di partecipazioni societarie, in modo tale da dotarli delle clausole idonee (e.g., gross-up) a gestire la variabile fiscale correlata alla qualificazione degli importi in esame.
[1] Cfr, in questi termini, M. Speranzin, “Le clausole relative all’oggetto “indiretto” (il patrimonio sociale): garanzie sintetiche e garanzie analitiche”, in M. Irrera (a cura di) “Le acquisizioni societarie”, Zanichelli ed, 2011, p. 197.
[2] Tra le altre, si veda sul punto Cass., sent. 15 novembre 2006, n. 26690. Per un commento sul tema, si veda E. Civerra, “Cessione di azioni: una clausola di garanzia generica e incoerente – Azioni – Il Commento”, in Le Società n. 4/2017, pag. 421 e ss..
[3] Cfr., in senso analogo, F. Zanetti, S. Furian, F. Gallio e R. L., “Le rettifiche prezzo nelle acquisizioni d’azienda e la formulazione delle clausole di garanzia”, in Dialoghi Tributari n. 5/2011.
[4] In senso contrario, si veda Cass., 12 settembre 2019, n. 22790, con cui è stata affermata la presunta “non completa estraneità” dei beni sociali rispetto all’oggetto della compravendita di partecipazioni sociali. Nello stesso senso, anche Cass., 10 febbraio 1967, n. 338 del 1967. Per un commento in senso critico, cfr. M. Speranzin, “Una criticabile sentenza della cassazione in materia di garanzie legali e convenzionali nel caso di trasferimento di partecipazioni sociali”, in Il Corriere Giuridico, 4/2020, p. 510 e ss..
[5] Cfr., in senso analogo, B. Mandelli, “Un recente orientamento della CTP di Como in tema di cessione di quote di s.r.l. ed Imposta fissa di registro”, in “Le Società” n. 8 del 2009, pag. 975. Ciò è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità che ha affermato che, in materia di compravendita delle azioni di una società che si assuma stipulata ad un prezzo non corrispondente al loro effettivo valore, senza che il venditore abbia prestato alcuna garanzia in ordine alla situazione patrimoniale della società stessa, il valore economico dell’azione non rientra tra le qualità di cui all’art. 1429 c.c., n. 2, relativo all’errore essenziale. Cfr. Cass. 16 giugno 2021 n.17053, Cass. 19 luglio 2007, n. 16031 e Cass. 29 agosto 1995 n. 9067. Sempre nel senso di negare l’applicabilità delle garanzie legali previste dagli artt. 1490 e ss. c.c, cfr.Cass., 21 giugno 1996, numero 5773, in Foro it., 1996, I, p. 3382; Cass. 18 dicembre 1999, n. 14287, in Riv. Not., 2000, p. 993; Cass. 13 dicembre 2006, n. 26690;
[6] In tal senso si veda, tra tutti; A. Silvestri, “La fiscalità delle garanzie del venditore nelle cessioni di partecipazioni”, in Rivista di diritto tributario, fasc. 2/2017.
[7] Tra i tanti, si veda in questi termini D. Stevanato, “Acquisizioni di società e obblighi del venditore per le passività sopravvenute: la qualifica fiscale dell’indennizzo come «differenza-prezzo»”, in “Dialoghi Tributari” n. 4 del 2011; F. Zanetti, “La rilevanza delle clausole per stabilire il collegamento fiscale con l’operazione originaria”, in Dial. Trib., n. 5/2011, p. 521 e ss; S. Furlan-F. Gallio, “Il trattamento fiscale ai fini delle imposte dirette delle rettifiche di prezzo”, in Dial. trib., 2011, p. 527 e ss.
[8] Comm. trib. prov. di Mantova, Sez. I, 22 novembre 2017, n. 171.
[9] Cfr. in senso analogo L. Miele, “Compravendita di aziende e di partecipazioni sociali: le clausole di rettifica del prezzo”, in Corr. Trib., n. 38/2014, p. 2913 e ss.
[10] In senso analogo G. De Nova, op. cit.
[11] Merita precisare – nonostante non sia direttamente oggetto del presente contributo – che l’adozione dell’uno o dell’altro approccio ha impatti anche sul piano dell’imposizione indiretta. Invero, laddove si attribuisse agli importi corrisposti a fronte della violazione delle clausole di garanzia natura risarcitoria, la prestazione patrimoniale sarebbe esclusa dal concorso alla formazione della base imponibile IVA ex articolo 15, comma 1, n. 1) del D.P.R. n. 633/1972, senza quindi obbligo di emissione della fattura e con potenziale applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale. Diversamente, qualificando fiscalmente l’indennizzo corrisposto come rettifica del prezzo di cessione, si avrebbe un’operazione soggetta ad IVA (correlata ad un’operazione esente) con applicazione del principio di c.d. alternatività IVA/registro, ex articolo 40 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131.
[12] Cfr., nello stesso senso, anche Cass. 19 ottobre 2012, n.17948, Cass., 24 luglio 2014, n. 16963 e Cass., 13 marzo 2019, n. 7183.
[13] Cfr., nello stesso senso, L. Bazzoni, P. Piantavigna, “Cessione di partecipazioni: indennizzi imponibili i pagamenti da dichiarazioni di garanzia – regime tributario delle dichiarazioni di garanzia pattuite nell’ambito di contratti di compravendita di partecipazioni”, in GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 3/2021, p. 241 e ss.
[14] Nello stesso senso, si veda G. Fransoni, “Note in tema di compravendita di partecipazioni e regime fiscale delle somme corrisposte per la violazione delle clausole di garanzia, in Diritto e pratica tributaria”, n. 5/2012, p. 11055 e ss.
[15] Cfr., per un commento, T. Marino- S. Angelucci, “Rilevanza IRES e IRAP delle clausole di garanzia dei contratti di compravendita di partecipazioni”, in Il Fisco, n. 6/2022, p. 1-529.
[16] Si osserva che la medesima impostazione è stata in passato avallata anche dalla giurisprudenza di merito, ed in particolare dalla sentenza n. 171/1/17 della Commissione tributaria provinciale di Mantova.
[17] L’Agenzia delle entrate si era espressa in questi stessi termini anche con risoluzione n. 184/E del 13 luglio 2009 e risoluzione n. 154/E del 15 dicembre 2004.
[18] A mente dell’articolo 101 del TUIR, infatti, rappresentano sopravvenienze passive (deducibili), inter alia, “il mancato conseguimento di ricavi o altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi”. Ebbene, la componente (negativa) “indennizzo” si configura come una rettifica del capital gain originariamente tassato – in parte, per effetto del regime di participation exemption – in un precedente esercizio. Cfr., in senso analogo, M. Santocchi, “Le integrazioni del corrispettivo di cessione delle partecipazioni”, in F. Brunelli (a cura di) AA.VV., “La participation exemption”, Milano, 2016, p. 209 e ss.
[19] Nel caso di specie, infatti, il diritto alla percezione dell’indennizzo è sorto a seguito di dodici mesi dalla data della cessione, con la conseguenza che, ai sensi dell’IFRS 3, il relativo importo è transitato a conto economico.
[20] In questo senso, cfr. la Relazione illustrativa al Decreto IAS; in tali casi, come precisato con Circolare n. 7/E del 28 febbraio 2011, par. 4.4, “nell’ipotesi in cui solo una controparte rediga il bilancio in conformità agli IAS/IFRS, sarà solo quest’ultima a rielaborare, ai fini fiscali, la rappresentazione di bilancio IAS compliant”.
[21] Cfr., in questi termini, la Risposta nonché quanto in precedenza affermato dall’Amministrazione finanziaria con Circolare n. 7/E del 28 febbraio 2011.
[22] Le medesime considerazioni erano state espresse con la citata risposta a interpello n. 956-2412 dell’1 luglio 2021 da parte della DRE Lombardia. Per una critica a tale ricostruzione, in particolare a causa degli effetti di disalignment prodotti, si veda T. Marino – S. Angelucci, op. cit., p. 1-529.
[23] Cfr., in questo senso, L. Bazzoni, P. Piantavigna, op. cit., p. 241 e ss..
[24] Allo stesso modo e di riflesso, il fatto che le parti abbiano convenzionalmente considerato l’indennizzo come un aggiustamento prezzo potrà essere oggetto di contestazione da parte dell’Agenzia delle entrate, laddove la componente corrisposta abbia, nella sostanza, funzione risarcitoria.
[25] Cfr. in senso analogo T. Marino – S. Angelucci, op. cit., p. 1-529.
[26] Cfr., tra le altre, Circolare n. 36/E del 2004.
[27] Cfr., in senso analogo, M. Santocchi, op. cit., p. 209 e ss.