La Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza n. 22362 del 7 agosto 2024, si è pronunciata sulla legittimità delle trattenute, poste in essere dal datore di lavoro ai propri dipendenti, per il rimborso dei costi di contabilizzazione e gestione funzionali alla cessione del quinto dello stipendio.
La Corte osserva preliminarmente che la cessione del quinto si colloca nell’alveo della cessione del credito, per la cui validità non occorre certo il consenso del debitore ceduto, cui la cessione medesima è opponibile, purché ne risulti a conoscenza.
In ogni caso, sottolinea la S.C., la cessione non deve risultare eccessivamente gravosa per il debitore ceduto, ossia deve rispettare i limiti di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 C.c.), che riguardano non la validità e l’efficacia del contratto di cessione del credito, ma soltanto il profilo del pagamento (art. 1196 C.c.), ossia dell’adempimento.
Nel caso di specie, tuttavia, osserva la Corte, tali limiti non sono certo stati oltrepassati: la cessione del credito costituisce strumento di finanziamento del lavoratore per accedere al mercato dei beni e dei servizi, così consentendogli, mediante la sottoscrizione di contratti di finanziamento rateale, la soddisfazione di esigenze anche diverse; il lavoratore ha difatti un diritto potestativo ad ottenere finanziamenti mediante la cessione fino a un quinto dello stipendio.
La Cassazione ripercorre quindi l’evoluzione normativa dell’istituto in esame, ricordando che la possibilità di contrarre finanziamenti ratealmente estinguibili con cessione di quote dello stipendio o del salario, originariamente prevista per i dipendenti pubblici in virtù dell’art. 5 D.P.R. 180/1950, è stata poi estesa anche ai pensionati ed ai dipendenti privati, mediante un programma di rimborso del finanziamento attuato usualmente attraverso lo strumento della cessione del credito di natura lavoristica.
Il datore di lavoro non può quindi pretendere il rimborso dei costi della cessione, salvo che ne dimostri l’eccessiva gravosità, da commisurare però alle dimensioni dell’impresa, la quale esige la dotazione di una struttura amministrativa corrispondente alla sua dimensione, conformemente all’art. 2086 C.c., in base al quale l’impresa deve dotarsi di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla sua dimensione.
La S.C. rileva peraltro che esisterebbero strumenti di attenuazione dell’eventuale aggravio del datore di lavoro: ricorda, in proposito, che aveva già ritenuto valido il patto con il quale l’istituto finanziatore si era obbligato, accettandone il relativo regolamento, a sostenere gli oneri di gestione delle cessioni sostenuti dall’istituto di previdenza (terzo pignorato); l’art. 1196 C.c., che pone le spese del pagamento a carico del debitore, può infatti essere derogato da un accordo tra debitore e creditore, e pure da un accordo tra debitore ceduto e finanziatore cessionario del credito (Cass. 13 settembre 2021, n. 24640).
In tale prospettiva, nel caso di specie, a fronte della necessità di allegare e provare, con fatti positivi, la maggior gravosità delle prestazioni comportate dal servizio di contabilizzazione e di gestione amministrativa, funzionale alla cessione del quinto dello stipendio degli impiegati rispetto alla propria organizzazione aziendale, tale da determinare costi ingiusti, intollerabili o sproporzionati, meritevoli quindi di essere ristorati, la società ricorrente si era solo limitata a reiterare la dettagliata elencazione delle attività, dei tempi di evasione da parte del personale in esse impiegato e dei relativi costi, comportati dal servizio aggiuntivo di contabilizzazione e gestione della cessione del quinto dei dipendenti.
La Corte d’appello ne aveva già motivato l’insufficienza, senza che però la società ricorrente avesse poi affrontato il nodo problematico cruciale correlato non solo all’assenza di dimostrazione dell’insopportabilità di tali oneri, ma altresì dei tentativi eventualmente posti in essere per una loro attenuazione.