Con ordinanza del 16 dicembre il Tribunale di Roma ha ritenuto che l’esistenza dell’emergenza da Covid-19 non sia di per sé condizione intrinsecamente impediente in termini assoluti, rilevante ai fini dell’impossibilità di adempiere alla propria prestazione (nel caso di specie, il pagamento dei canoni dell’immobile commerciale).
La limitazione ai diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti verificatesi nel periodo di emergenza sanitaria è dovuta, infatti, non alla intrinseca diffusione pandemica di un virus ex se, ma alla adozione “esterna” dei provvedimenti di varia natura (normativi ed amministrativi) i quali, sul presupposto della esistenza di una emergenza sanitaria, hanno compresso o addirittura eliminato alcune tra le libertà fondamentali dell’Uomo, così come riconosciute sia dalla Carta Costituzionale che dalle Convenzioni Internazionali.
Ai fini della valutazione sull’incidenza del sinallagma contrattuale, si deve quindi verificare se tale compressione fosse insuperabile, ovvero se si fosse in presenza di atti censurabili ed illegittimi e/o di una norma incostituzionale o in violazione delle Convenzioni internazionali, e se la loro ipotetica caducazione avrebbe potuto eliminare le conseguenze dannose.
Nel ritenere, per i motivi meglio espressi nell’ordinanza allegata, illegittimi in quanto in contrasto con la Carta Costituzionale il DPCM emergenziale, il Tribunale ha evidenziato come la parte ben avrebbe potuto (ed, anzi, dovuto) impugnare tale atto, con ciò eliminando in radice le conseguenze che ne sono derivate.
La caducazione, infatti, avrebbe interessato l’intero DPCM, trattandosi di disposizioni correlate le une alle altre, in un rapporto di stretta connessione che le avrebbe travolte nella interezza.
Si tratta quindi, a ben vedere, non di un danno “da emergenza sanitaria”, ma di un danno da attività provvedimentale, che si reputa illegittima, e che la parte non si è attivata in alcun modo per rimuovere e, di conseguenza, eliminarne gli effetti dannosi, che dunque ben avrebbe potuto evitare.