1. Mi sono già soffermato, in precedenti analisi, sulla valutazione della dirompente incidenza che la recente riforma delle BCC (realizzata dagli artt. 1 e 2 del d.l. n. 18 del 2016 convertito con modifiche dalla legge n. 49 del 2016) espleta sulla ‘specificità operativa’ di tali banche, per certi versi alterandone l’essenza cooperativa; conseguenza inevitabile dell’aggregazione in un «unico gruppo cooperativo», sul piano delle concretezze imposta dalla legge alla quasi totalità di tali enti (v. da ultimo l’articolo Approvata la legge di conversione del d.l. n. 18/2016. Un’opzione normativa poco convincente, pubblicato in questa Rivista).
Ritengo opportuno in questa sede prendere in considerazione la reale portata dispositiva dell’art. 1, comma quarto, lett. c, della menzionato decreto legge, nella parte riguardante il recesso di una BCC dal ‘gruppo bancario cooperativo’ (rectius: dal gruppo cui ha prestato adesione). Mi sembra necessario, infatti, accertare se il dettato normativo in parola si risolva in una prescrizione orientata ad assicurare la continuità (nel tempo) di una inarticolata permanenza delle banche di credito cooperativo nel ‘gruppo unico’ promosso da Federcasse, al quale queste ultime (nella fase di prima applicazione della riforma) hanno aderito.Ed invero, ove tale verifica non sia affermativa, diviene ipotizzabile il superamento della soluzione (in via di fatto riscontrabile nel settore) della riferibilità esclusiva alla nominata struttura nell’applicazione della legge n. 49. Ciò con l’ovvia, importante conseguenza di segnare un’apertura disciplinare volta non solo a supportare le istanze di alcuni enti creditizi favorevoli alla creazione di ‘gruppi alternativi’ (v. l’editoriale di Orfano, Federcoop, allarme dipendenti Verifiche per il gruppo alternativo, in Corriere del trentino del 9 giugno 2016), bensì a recuperare (all’interno della categoria) una logica imprenditoriale fondata sulla libertà dell’iniziativa economica privata, di cui all’art. 41 Cost.
A ben riflettere, i tempi ‘molto ristretti’ concessi dal legislatore ai soggetti intenzionati a fruire della way out (la cui praticabilità, com’è noto, è stata subordinata a condizioni fiscali fortemente penalizzanti) non hanno consentito che si determinasse tra le BCC, intenzionate a non aderire al modello cooperativo sopra menzionato, un coagulo decisionale necessario per dar vita ad aggregazioni di gruppo intorno ai medesimi. A ciò si aggiungano le implicazioni negative della tradizionale «difficoltà di dialogo» tra gli enti creditizi in esame: questa ha impedito che si realizzasse una pronta convergenza degli «interessi in campo» verso l’obiettivo comune di un sistema pluralistico di gruppi, voluto da alcune BCC e auspicato dalla prevalente dottrina al fine di tener ferma la specificità cooperativa nel contesto dell’innovazione regolamentare sollecitata dalle autorità di settore (cfr. tra gli altri Lamandini, Nuove riflessioni sul gruppo cooperativo bancario regionale, in Giur. comm., 2015, I, p. 63; Ferraresi – Nordi – Rizzo, Una soluzione provinciale per le banche di credito cooperativo, in lavoce.info del 26 gennaio 2016; Pellegrini, La funzione delle bcc in un mercato in trasformazione. Ipotesi di riforma e specificità operativa, in Riv. trim. dir. econ., 2015, Supplemento n. 4, p. 62 ss).
2. Al fine di consolidare la struttura del ‘gruppo bancario cooperativo’ il legislatore della riforma non solo ha previsto l’obbligatoria adesione a quest’ultimo da parte delle BCC (privandole della licenza qualora omettano di partecipare ad esso), ma ha anche disposto il criterio disciplinare secondo cui, «in caso di recesso o esclusione da un gruppo bancario cooperativo», l’ente creditizio cooperativo che non delibera «la propria trasformazione in società per azioni» deve mettersi in liquidazione (art.36, comma 1bis).
E’ questa una regola che – per quanto possa apparire contraria al rispetto della autonomia privata in quanto limita la libertà decisionale degli enti creditizi suoi destinatari – deve ritenersi coerente con l’impianto complessivo della riforma; essa, infatti, risponde alla ratio di rafforzare la costruzione del gruppo, assicurandone la continuità nel tempo, per cui è in linea con l’esigenza legislativa di ridefinire in modalità ottimali l’assetto organizzativo della categoria. Più in particolare, risulta evidente la finalità della normativa in esame di impedire che la funzione aggregante svolta dal gruppo cooperativo possa essere in qualche modo compromessa, vuoi facendo venir meno la possibilità di risolvere i problemi di patrimonializzazione delle banche in parola, vuoi impedendo che possano essere predisposte apposite forme di intervento solidaristico, indispensabile per superare la situazione di crisi in cui numerose BCC versano.
Nello stesso ordine logico vanno inquadrate, poi, le disposizioni, contenute nel nuovo art. 37-bis del t.u.b., concernenti ora il ‘contratto di coesione’ che disciplina i poteri di direzione e coordinamento della capogruppo (comma 3, lett. d), ora l’ autorizzazione del «recesso» da parte della Banca d’Italia, la quale deve all’uopo aver «riguardo alla sana e prudente gestione del gruppo e della singola banca» (comma quinto). Ed invero, la riconduzione – nel primo caso – dei criteri e delle condizioni di recesso ai contenuti del ‘contratto’ posto a base del gruppo convenzionale, per tal via costituito, assurge a fattore determinante della fattispecie normativa che ci occupa (in vista del menzionato obiettivo di continuità previsto per il nuovo aggregato societario). Per converso – nel secondo caso – il provvedimento rilasciato dall’Organo di supervisione riflette la necessità di condizionare il recesso alle valutazioni che il medesimo è tenuto a compiere a fini di vigilanza; vale a dire ogni qual volta si versi in presenza di un’azione (o intervento dispositivo) dell’ente sottoposto a controllo in grado di comportare una riduzione dei ‘fondi propri’ di quest’ultimo (come, ad esempio, nel caso delle autorizzazioni relative al riacquisto o rimborso di strumenti del capitale primario dell’ente, disciplinate dagli artt. 77 e 78 del Regolamento (UE) n. 575/2013, concernenti per l’appunto i requisiti prudenziali applicabili ai soggetti abilitati).
A ben considerare, se è indubbio che la voluntas legis a fondamento della costruzione normativa in esame deve essere individuata avendo riguardo al necessario raccordo (rectius: legame) costituito dall’appartenenza delle BCC al ‘gruppo cooperativo’, è altrettanto vero che la regolazione non fornisce elementi che consentano di identificare a priori l’entità soggettiva, cui le banche di credito cooperativo sono tenute ad aderire; ciò evitando di manifestare un orientamento preferenziale tra le diverse opzioni che si presentano agli enti creditizi destinatari delle sue prescrizioni. Una chiara conferma in tal senso viene data non solo dalla inequivoca formulazione della disciplina speciale adottata dal legislatore della riforma, bensì dal riferimento ai principi generali che, nel nostro ordinamento, sono posti a presidio dell’autonomia contrattuale (a fondamento della costruzione cui si è dato vita).
Significative sul punto devono ritenersi, in primo luogo, le disposizioni nelle quali si rinvengono espressi richiami al ‘gruppo bancario cooperativo’, sia per condizionare all’adesione a quest’ultimo «il rilascio dell’autorizzazione» (art. 33, comma 1 bis) delle BCC di nuova costituzione, sia per individuare la concreta disciplina di tale figura giuridica, alla quale (nella logica ordinatrice della riforma) è demandata una delicata funzione di aggregazione tra gli enti creditizi della categoria (art. 37 bis). Da tale complesso dispositivo – per le modalità disciplinari con cui sono evidenziati i dati caratterizzanti della nuova realtà organizzativa – si evince che il legislatore non ha inteso effettuare scelte preferenziali per la specifica soluzione da adottare in concreto (‘gruppo unico’ ovvero ‘ipotesi pluralistica’). Ed invero, ciò che emerge in modo chiaro è la riferibilità a detta tipologia strutturale, ritenuta di per sé idonea agli scopi perseguiti; in definitiva, può dirsi che il legislatore ha accolto la tesi – avanzata a fine 2015 da un esponente della Banca d’Italia in un’Audizione parlamentare (cfr. Barbagallo, Intervento al «Seminario istituzionale sulle tematiche relative alla riforma del settore delle banche di credito cooperativo», Senato della Repubblica, Roma, 15 ottobre 2015, p. 8) – secondo cui non sussistono preclusioni alla possibilità di costituire più gruppi ove una volontà in tal senso venga «espressa dal mercato».
D’altronde, anche la normativa concernente la «costituzione del gruppo bancario cooperativo» (art. 37 ter) non lascia dubbi in proposito, dal momento che in essa si prevede la possibilità che qualsivoglia S.p.A. bancaria, in possesso dei requisiti di legge, possa proporsi per l’assunzione del «ruolo di capogruppo ai sensi dell’articolo 37-bis»; istanza, ovviamente, subordinata alla necessità di appositi accertamenti, effettuati dalla Banca d’Italia, in ordine alla «sussistenza delle condizioni previste ai sensi dell’articolo 37-bis» (verifica che investe, in particolare, il «grado di adeguatezza patrimoniale e finanziaria del gruppo e l’idoneità del contratto a consentire la sana e prudente gestione del gruppo»).
Sotto un profilo d’ordine generale, va peraltro rappresentato che la legittima imposizione di vincoli, disposta dalla riforma, per quanto fondata su un provvedimento legislativo e su criteri razionali, non deve modificare la regola fondamentale della libertà d’iniziativa e del mercato, come da tempi risalenti viene indicato dalla Corte Costituzionale nelle decisioni che interpretano il disposto dell’art. 41 Cost. (cfr. per tutte la sentenza n. 78 del 1958). Ne consegue che se competenze e schemi ordinatori innovativi possono, in ambito bancario, essere previsti dalla legge, l’uso dei medesimi non può in alcun modo limitare l’esercizio dei diritti che l’ordinamento riconosce agli appartenenti al settore avendo riguardo alla specificità delle prerogative ai medesimi attribuite.
3. Alla luce di quanto precede diviene possibile trarre alcune conclusioni in ordine alla ravvisata apertura della legge n. 49/2016 alla costituzione di gruppi alternativi a quello progettato da Federcasse. Di certo, l’attuale sistema disciplinare non esprime una scelta per quest’ultimo; sicchè esso non individua il modello cui «univocamente» devono orientarsi tutte le banche di credito cooperativo, anche se la gran parte di esse con tutta probabilità, nella fase iniziale d’applicazione della riforma, aderirà al medesimo; evenienza che, ovviamente, potrebbe trovare conforto in interpretazioni volte a sostenere i desiderata della Federazione nazionale.
Da qui la prospettiva di futuri scenari, la cui realizzazione è legata soprattutto ad un processo di maturazione del ‘senso di appartenenza’ alla categoria e, dunque, agli sviluppi positivi di un proficuo dibattito dialettico che la riforma ha avviato all’interno di quest’ultima. Ed invero, rappresentare un’ipotesi ricostruttiva della realtà bancaria cooperativa italiana orientata verso la costituzione di una pluralità di ‘gruppi’ sembra, a mio avviso, la via da seguire al fine di evitare le implicazioni negative rivenienti dall’assemblaggio di tutte le BCC esistenti in un mega-gruppo (quale di certo è quello unico), tematica sulla quale mi sono già intrattenuto in passato (cfr. L’autoriforma delle Banche di Credito Cooperativo. Una svolta decisiva nella morfologia del sistema bancario italiano, in Contratto e impresa, 2016, p. 62 ss; Più gruppi cooperativi per la soluzione della riforma, in questa Rivista, marzo 2016).
Si prescinde dalla circostanza che – nelle more previste dalla legge n. 49/2016 per l’entrata in vigore della disciplina del gruppo cooperativo (i.e. 18 mesi) – una qualsivoglia S.p.A. bancaria, in grado di rispettare le condizioni di cui all’art. 37 bis, comma primo, lett. a, tub può ritenersi legittimata a proporsi alla Banca d’Italia per l’assunzione del ruolo di capogruppo. Del pari, si tralascia di valutare la possibilità consentita alle banche di credito cooperativo aventi sede legale nelle province autonome di Trento e Bolzano di «costituire autonomi gruppi bancari cooperativi composti solo da banche aventi sede e operanti esclusivamente nella medesima provincia autonoma» (art. 37 bis, comma primo bis); ipotesi disciplinare che potrebbe trovare facile attuazione su iniziativa della Cassa centrale, partecipata da numerose BCC insediate nel territorio di dette provincie (cfr. l’editoriale di Terreri, Rurali in allarme: no al gruppo unico, pubblicato in l’Adige del 12 giugno 2016).
Quel che, invece, si vuole sottolineare in questa sede è la prospettiva di cambiamento sottesa alla costruzione normativa in esame. Mi riferisco alla possibilità – tutt’altro che teorica – consentita in futuro a società per azioni bancarie di farsi promotrici di interventi preordinati alla costituzione di nuovi gruppi cooperativi; ciò, coinvolgendo una pluralità di enti della categoria, disposti ad esercitare il diritto di recesso dal ‘gruppo’ cui fino a quel momento hanno prestato la loro adesione. E’ questa un’evenienza concreta ed attuabile! Essa è, infatti, suffragata dalla esclusione di limiti giuridici al recesso, qualora tale diritto sia esercitato dalla BCC non per dismettere tout court la veste cooperativa ovvero per fuoriuscire dalla realtà di gruppo, bensì per traslare in altra similare struttura che sia ritenuta più adeguata, per dimensioni e modalità organizzative, allo svolgimento di un’attività orientata al territorio e, dunque, alla conservazione della specificità operativa delle banche in parola. E’ evidente come la praticabilità di siffatta opzione può interagire favorevolmente sulla rimodulazione (che per tal via si otterrebbe) delle condizioni economiche e strategiche della cooperazione bancaria, la quale svolge un ruolo fondamentale nel supporto finanziario alle realtà imprenditoriali locali e nello sviluppo di sinergie positive nell’ innovazione produttiva.
Il tema del recesso – tutt’altro che secondario nell’economia della riforma, come è dato desumere dai riferimenti a detto istituto in precedenza esaminati – è affrontato dalla normativa in modalità che riconoscono l’esercizio di tale diritto, che dunque viene astrattamente salvaguardato. Si tenga presente, inoltre, l’espresso riferimento della regolazione comune all’ipotesi di «recesso dal gruppo»; formulazione che – in linea con le indicazioni rivenienti dalle previsioni civilistiche in materia di recesso degli azionisti (artt. 2532 c.c. e 2437 c.c.), ritenute dalla prevalente dottrina applicabile alle cooperative (cfr. da ultimo Di Ciommo, Il diritto di recesso nella riforma delle banche popolari, in AA,VV., La riforma delle banche popolari, Padova, 2015, p. 97) – consolida il convincimento secondo cui, nella fattispecie, il recesso può essere esercitato in quanto previsto dalla legge. Del resto, va considerato che principio ordinatorio dell’organizzazione cooperativa è quello secondo cui, nel «gruppo normativo paritetico» di formazione contrattuale, la convenzione sottesa a quest’ ultimo debba indicare «i criteri e le condizioni di adesione e di recesso dal contratto» (v. l’art. 2545 septies, comma primo, n. 4, c.c.)
La mancanza di puntuali richiami atti a meglio definire il modo con cui la Banca d’Italia potrà intervenire in subiecta materia nell’esercizio del potere/dovere alla medesima demandato dal regolatore per garantire l’osservanza delle prescrizioni normative – e, dunque, il buon esito dell’innovazione morfologica avuta di mira – fa presumere che gli interventi posti in essere da detta autorità siano contenuti nell’ambito delle relative competenze. Pertanto, ad essa spetterà verificare il rispetto dei requisiti fissati dalla legge per la costituzione di un nuovo gruppo cooperativo e non anche la possibilità di interferire in qualche modo sulle legittime aspettative in tal senso rappresentate dalle banche di credito cooperativo.