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Editoriali

L’usura moratoria e la Cassazione: un (primo?) passo indietro (a proposito di Cass. 13 maggio 2021, n. 12964)

5 Luglio 2021

Antonio Didone

già Presidente di Sezione della Corte di Cassazione

Di cosa si parla in questo articolo

1.- Nel commentare la sentenza delle Sezioni unite (18 settembre 2020, n. 19597) sulla rilevanza usuraria del tasso moratorio[1], mi sono soffermato, tra le altre cose, su uno dei principi di diritto contenuti nella stessa. In particolare, su quello relativo all’accertamento dell’usurarietà, per cui «in tema di contratti di finanziamento, l’interesse ad agire per la declaratoria di usurarietà degli interessi moratori sussiste anche nel corso dello svolgimento del rapporto, e non solo ove i presupposti della mora si siano già verificati; tuttavia, mentre nel primo caso si deve avere riguardo al tasso-soglia applicabile al momento dell’accordo, nel secondo la valutazione di usurarietà riguarderà l’interesse concretamente praticato dopo l’inadempimento».

Ho rilevato in proposito, come, a conti fatti, detto principio avesse introdotto una distinzione, quella tra tasso «convenuto» e tasso «applicato», non prevista dalla legge. Una simile distinzione, di per sé suscettibile di generare anche importanti conseguenze di ordine pratico, non mi ha convinto affatto.

2.- Più precisamente, secondo le Sezioni Unite, a rilevare ai fini della normativa sull’usura, sarebbe sostanzialmente soltanto l’interesse moratorio applicato, posto che nel caso in cui il debitore agisca per far dichiarare «l’illiceità del patto sugli interessi rispetto alla soglia usuraria, come fissata al momento del patto, la sentenza ottenuta vale come accertamento, in astratto, circa detta nullità, laddove esso fosse, in futuro, utilizzato dal finanziatore». Un simile passaggio argomentativo è del resto ulteriormente esplicitato nella misura in cui, pur ammettendo che possa essere dichiarato illecito il tasso convenuto, si afferma che a rilevare ai fini della produzione degli effetti di legge, della nullità ex art. 1815, 2 comma c.c. cioè, sarà solo quello praticato. A ribadire il concetto, si legge ancora nel testo della pronuncia che «realizzatosi l’inadempimento, rileva unicamente il tasso che di fatto sia stato richiesto ed applicato al debitore inadempiente»; così come pure si legge «ciò che rileva in concreto in ipotesi di inadempimento è il tasso moratorio applicato; se il finanziato intenda agire prima, allo scopo di far accertare l’illiceità del patto sugli interessi rispetto alla soglia usuraria, come fissata al momento del patto, la sentenza ottenuta vale come accertamento, in astratto, circa detta nullità, laddove esso fosse, in futuro, utilizzato dal finanziatore».

3.- Nel commento sopra riferito (v. nt. 1), ho rilevato come il ridetto principio di diritto sia fortemente contrario al testo della legge n. 108 del 1996, come pure alla ratio della medesima, per come propriamente intesa alla repressione della piaga sociale del fenomeno usurario: in effetti, la legge si occupa espressamente degli interessi dati o promessi, sotto qualsiasi forma (art. 644 c.p.).

Lungi dal convalidarla, la legge respinge propriamente l’eventualità che il creditore, contenendo poi la pretesa azionata nel limite della soglia di usura, riesca in qualche modo a «purgare» l’illecito commesso. Questo rimane comunque tale. La tesi delle Sezioni Unite sembra, in definitiva, voler degradare la normativa antiusura a una sorta di «affare privato».

4.- Ora, è notizia di questi giorni che la Sezione terza civile della Cassazione, pur richiamando più volte i princìpi di diritto espressi dalle Sezioni Unite[2], ha affermato che se «la regola della usura vale dunque anche per gli interessi di mora […] essa vale sol che gli interessi vengano pattuiti, in quanto l’articolo 644 c.p. qualifica come illecita la condotta di chi si fa dare, sì, ma anche semplicemente promettere, interessi a tasso usuraio; senza considerare che la sanzione della nullità mira a tutelare il debitore, e sarebbe vanificata se costui potesse agire per la nullità della clausola solo dopo aver corrisposto gli interessi e dunque dopo averla attuata adempiendovi».

Si tratta, a mio giudizio, di una pronuncia assolutamente condivisibile. Non solo per la correttezza del principio enunciato, ma anche per il metodo seguito: anziché rimettere nuovamente la questione alle Sezioni unite, infatti, la Corte – stante l’evidente contrasto del principio enunciato dalla sentenza n. n. 19597 del 2020 con la legge n. 108 del 1990 – ha preferito emettere una pronuncia di stampo “correttivo”, saltando sostanzialmente la prescrizione fissata dall’art. 374, 3 comma c.p.c. Di questa recente pronuncia è peraltro da rimarcare pure il relativo senso pratico, ponendosi la stessa in conformità con il principio di ragionevole durata dei processi.

5.- Come si vede, la Cassazione sembra tornare sui propri passi.

Viene spontaneo domandarsi allora se questo atteggiamento in futuro non sia destinato a contagiare altri aspetti; e così, in particolare, il passo delle Sezioni Unite immediatamente successivo, invece confermato dalla sentenza in discorso, per cui «si applica l’art. 1815, comma 2, cod. civ. onde non sono dovuti gli interessi moratori pattuiti, ma vige l’art. 1224, comma 1 cod. civ., con la conseguente debenza degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente convenuti».


[1] Il riferimento corre al mio Le Sezioni Unite e l’«usura degli interessi moratori». Spunti critici, in Riv. dir. banc., II, 2021, 107 ss.

[2] Così in materia di soggezione degli interessi moratori alle regole antiusura, come anche rispetto alla struttura rimediale applicabile (su quest’ultimo aspetto v. infra, nel 5).

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