A differenza di quella originaria, l’usura sopravvenuta – figura ormai entrata in pianta stabile nel nostro diritto vivente – non comporta la «conversione» ex lege del negozio da oneroso in gratuito che è disposta dall’art. 1815, comma 2, c.c. (ma solo una riduzione del carico economico: o al limite massimo del consentito ovvero, secondo altra opinione, alla linea del TEGM). Da ciò l’importanza di distinguere con precisione tra i due casi di usura: al di là della constatazione generica, e piuttosto lasca, per cui quella originaria si manifesta già al momento di stipula del rapporto. E da qui pure l’importanza della decisione patavina qui pubblicata per cui, nel caso in cui «il tasso venga a superare il tasso soglia in seguito a modificazione unilaterale della banca, la sanzione non potrà essere che quella del comma 2 dell’art. 1815 c.c., con la conseguenza che nessun interesse sarà dovuto». La sentenza, peraltro, presenta altri due lati di sicuro interesse. Il primo attiene alla conferma – corrente in giurisprudenza, ma contrastata dalle Istruzioni di banca d’Italia – dell’onnicomprensività del carico economico rilevante ai fini della verifica usuraria: «per verificare il superamento del tasso soglia – precisa la sentenza – deve essere computato tutto ciò che possa configurarsi come somma richiesta per la restituzione della somma ottenuta o comunque quale costo del danaro». L’altro riguarda le modalità di adeguamento dei contratti in essere alla disciplina di fine millennio, che ha consentito le clausole di anatocismo bancario (art. 120, comma 2, TUB prima della revisione di fine 2013): per questa sentenza occorre, senza possibili alternative, un apposito consenso scritto da parte del cliente.
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