L’8 ottobre ha compiuto vent’anni il regolamento europeo n. 2157/2001 istitutivo della Società Europea (SE), il cui embrione è da rinvenirsi nel lontano 1949, anno in cui il Consiglio d’Europa suggerì la creazione di uno statuto unico per le “Compagnie Europee” operanti in taluni settori di interesse generale. L’esiguo numero di SE costituite in Europa dal 2001 a oggi ha portato la critica a considerare fallito il tentativo di armonizzazione offerto dalla disciplina in questione. Invero, al netto di pochi fortunati casi (ad es. Allianz SE), i gruppi multinazionali preferiscono la creazione di holding regolate dal diritto dei singoli Stati. Ma l’impatto che il modello SE ha avuto sull’avvicinamento delle legislazioni nazionali in ambito societario e finanziario non deve essere affatto sottovalutato. Rispetto alle proposte normative degli anni Settanta del secolo scorso, e alla disciplina ancora oggi in vigore, il diritto europeo è profondamente cambiato. In ambito economico gli ordinamenti domestici hanno vissuto un processo di progressiva armonizzazione e raccordo. Ciò è dipeso dalle previsioni europee su OPA, diritti degli Azionisti, prospetto, Mifid, fusioni e scissioni transfrontaliere, agenzie di rating, ma anche CDRD e Solvency, e via discorrendo. Anche il processo di consultazione e produzione normativa si svolge in misura oramai preponderante presso le istituzioni dell’Unione. Il che porta, talvolta, a dover implementare nel tessuto regolamentare nazionale talune soluzioni nate in contesti culturali diversi, e come tali bisognose di accurato adattamento all’ordinamento ospitante. Ad esempio il lungo e complesso procedimento di coinvolgimento dei lavoratori nei processi di formazione delle Società Europee, mutuato dall’esperienza tedesca, è stato uno dei fattori che ne ha determinato il sostanziale insuccesso nei Paesi meno abituati a tale procedura (tra cui l’Italia). Tuttavia, a fronte di una rilevante armonizzazione delle regole basilari in ambito societario e finanziario, si è registrato, soprattutto di recente, un indebolimento delle libertà europee in materia di stabilimento e circolazione dei capitali, dovuto a un inasprimento dei golden powers nazionali iniziato dopo Lehman Brothers e accentuato in tempi di Covid-19. Di conseguenza, sebbene l’intelaiatura regolamentare sia sempre più omogenea all’interno dell’UE, l’esercizio del potere pubblico in ambito economico diviene oggi fattore in grado di distinguere in base alla nazionalità degli investitori. Eppure, rispetto al passato il nostro Paese, pur attraendo i capitali stranieri, ha perso importanti gruppi imprenditoriali, trasferitisi all’estero (per lo più in Olanda) per beneficiare di maggiore flessibilità nell’attribuzione dei diritti di voto in favore dei propri soci di riferimento. Del resto, che all’interno di confederazioni di Stati sia naturale una concorrenza fra diritti statali è fenomeno endemico, e ben conosciuto, non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti, in cui il dominio del diritto societario l’ha acquisito da tempo il Delaware per via della propria specializzazione legislativa in tale ambito. Ma talvolta la competizione dà luogo a fenomeni di race to the bottom, che possono portare a tentativi di deregolamentazione funzionali ad attrarre investimenti dall’esterno, come potrebbe accadere oggigiorno in materia di criptovalute. È in questi ambiti che un’azione chiara e uniforme dell’UE aiuterebbe a scongiurare in radice la messa in pericolo di una produzione normativa post crisi che si è dimostrata in grado di ripristinare la fiducia dei risparmiatori nel mercato. Ebbene, l’esempio offerto dalla Società Europea è molto istruttivo. Infatti, non è tanto il grado di utilizzo del modello organizzativo unionale a misurare il successo dell’iniziativa, quanto, invece, l’aver contribuito a creare e diffondere regole di governance adeguate e di ispirazione generale. Il futuro ci dirà se conviene investire in un restyling del regolamento sulla Società Europea ovvero su una convergenza dei processi legislativi nazionali in ambito economico, con la certezza, oramai acquisita, che il dialogo e il confronto fra tradizioni diverse può portare a gettare le fondamenta di un mercato europeo armonizzato su cui costruire la competitività futura dell’Unione.
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