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Vicinanza della prova in materia di contenzioso bancario. Spunti (I. il saldo zero)

11 Giugno 2014

Aldo Angelo Dolmetta e Ugo Malvagna

1.- «Sulla base di una dettagliata perizia stragiudiziale affidata ad uno studio di commercialisti», un imprenditore «chiede la condanna della banca alla restituzione della somma capitale … in quanto corrisposta indebitamente» (a mezzo addebiti per anatocismo, pagamento di spese non dovute, commissioni di massimo scoperto, …): nel calcolare la somma richiesta, la perizia muove dalla «base originaria di un saldo zero»; viene inoltre prodotta una serie di estratti conto (non completa, ma) che corrisponde alla fase terminale del rapporto. Costituendosi in giudizio, dal canto suo la banca chiede, tra le altre cose, che il ricalcolo avvenga «sulla base delle risultanze del primo estratto conto prodotto e agli atti».

Questi i tratti salienti – e conosciuti – della fattispecie decisa dalla sentenza del Tribunale di Reggio nell’Emilia, 23 aprile 2014, n. 6501. Dal resoconto portato in motivazione non si comprende, in effetti, se l’imprenditore avesse in precedenza utilizzato il potere riconosciutogli dalla norma dell’art. 119 TUB, né se in giudizio avesse richiesto l’emissione di un ordine di esibizione giudiziale; tanto meno se, chiestolo, il giudice avesse adottato il relativo provvedimento: sicura è soltanto – tra i dati ulteriori – la mancata produzione spontanea degli estratti da parte della banca.

Posto dunque di fronte a questa fattispecie, il giudice reggiano in via di obiter afferma che, «laddove sia la banca ad agire per il pagamento, la banca non può sottrarsi all’onere di provare il proprio credito invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell’ultima registrazione ex artt. 2220 c.c.». Per poi passare a decidere che, «sulla base dell’applicazione del riparto dell’onere della prova previsto dall’art. 2697 c.c.», «la ricostruzione dei rapporti di dare/avere [è] circoscritta al periodo in relazione al quale risultano prodotti gli estratti conto, senza potere muovere dal saldo zero nel caso di un primo estratto conto a debito per il cliente».

A condimento argomentativo della soluzione così assunta, il giudice osserva ancora che non può essere «accolta la tesi per la quale, sulla base del cosiddetto principio di vicinanza della prova, deve sempre e comunque farsi ricadere sulla banca l’onere della produzione degli estratti conto, indipendentemente dal fatto che sia presentata dalla banca stessa domanda di pagamento ovvero sia proposta dal correntista domanda di ripetizione»: «il principio di vicinanza della prova può e deve guidare l’interprete nei casi in cui la ricostruzione degli oneri probatori è oggettivamente dubbia …, ma non può certo essere utilizzato per scardinare le regole generali poste dall’art. 2697 c.c.».

2.- La segnalata ignoranza di circostanze nodali (secondo il nostro avviso) della fattispecie concreta – quali quelle sopra indicate – preclude all’evidenza la possibilità di esprimere valutazioni sulla correttezza o meno della soluzione adottata dal giudice nei confronti del caso che gli era stato affidato. A parte questa circostanza e quindi volgendo l’interesse verso una prospettiva tratta fuori dalle angustie dell’esito concreto del giudizio, non si può non rimarcare positivamente il passaggio di apertura alla regola di vicinanza2, che la essa manifesta: tanto più che il riconoscimento della medesima non è per nulla frequente nel panorama della giurisprudenza italiana.

Nella decisione, peraltro, questo passaggio rimane del tutto teorico, per nulla utilizzato cioè. Forse, anzi, addirittura demonizzato: là dove il giudice viene a intendere la vicinanza nel secco ed esclusivo modo di fattore distruttivo le regole legali sull’onere. Di più, quasi si trattasse di realtà di necessità, e in ogni modo, opposte.

Il che, per la verità, pare punto non poco opinabile. Non è forse inopportuno, allora, spendere in proposito – sulla relazione tra onere e vicinanza della prova3 – qualche piccola e sparsa osservazione attorno all’eventualità, per l’appunto compulsata dal ridetto giudice, in cui non siano presenti in giudizio tutti gli estratti conto del periodo di riferimento4.

***

3.- Può capitare, dunque, che la banca agisca in giudizio per ottenere il soddisfacimento coattivo di un proprio credito, come derivato da operazioni regolate in conto corrente. Ora, che – versandosi in una simile situazione – la banca non possa sottrarsi alla necessità (= abbia l’onere) di produrre in integrale e con continuatività sistematica tutti gli estratti del conto, è fatto da stimarsi sicuro: al limite dello scontato, potrebbe anche sottolinearsi. L’obiter del giudice reggiano, insomma, è senz’altro da condividere5.

Il che non significa, tuttavia, che non via sia nulla da segnalare in proposito. Al contrario.

La ragione della condivisione, invero, non riposa solo, o tanto, su un’applicazione meccanicistica della regola ex art. 2697 c.c., ma segue pure alla applicazione di quella della vicinanza. Qui, i due paradigmi finiscono, in buona sostanza, per convergere nel risultato; e a ben vedere è quello sostanziale a dare luce e profondità a quello processuale (non già viceversa). Secondo quanto è facile constatare.

La specie propone un creditore che agisce per il recupero del proprio credito. Non un creditore qualunque, peraltro, ma un creditore che è tale per impresa e professione: per l’appunto questa essendo la missione della banca. E’ davvero difficile pensare che sia corretto agire di impresa quello non di conservare, ma di disfarsi della documentazione del rapporto prima di avere chiuso in modo satisfattivo – o almeno soddisfacente – il rapporto medesimo. In realtà, la banca, che trascura di tenersi (e di tenersi per bene) la documentazione «regina» data dagli estratti – documentazione che essa medesima confeziona e che è tenuta a mandare periodicamente al cliente -, viola prima di tutto il dovere di sana e prudente gestione di cui all’art. 5 TUB. Per la banca, qui, la vicinanza alla documentazione di conto è proprio un «dover essere». Ed è sconveniente, oltre che irrealistico, pensare che i vari profili della faccenda (l’impresa come attività «organizzativa» di un prodotto – il contratto che tale attività porta sul mercato – la fase di gestione processuale del rapporto che ne viene a conseguire) non siano connessi anche giuridicamente tra loro.

Se poi si guarda alla regola di diritto enunciata dal giudice (e qui condivisa) in una prospettiva di evoluzione storica, non si fatica ad avvertire che – per quanto agli occhi del presente possa risultare ovvio – tale ordine di soluzione si manifesta relativamente recente per il nostro diritto vivente. Basta ricordare che, ancora qualche anno fa, nell’ambiente si tendeva a stimare il saldaconto – tradizionale carta bancaria, indicativa in tutto di una cifra scritta da un funzionario della stessa impresa impegnata nel recupero – come da solo sufficiente a reggere l’allegazione del credito vantato pure la fase giudiziale dell’opposizione a decreto ingiuntivo.

Come dire, in sostanza, che un tempo (non antidiluviano) la vicinanza nel bancario veniva vissuta, più che altro, come clausola di (alleggerimento, se non proprio di) esonero dall’onere della prova6.

4.- Pure capita che il cliente – portato in giudizio dall’agire recuperatorio della banca – ne contrasti la pretesa affermando l’insussistenza in tutto o in parte del credito: ad esempio, perché già pagato o perché il conto ha avuto, in realtà, uno sviluppo diverso da quanto assunto dalla banca (in ragione, così, di ipotetici pagamenti indebiti eseguiti dal cliente). E, all’interno di una situazione del genere, può anche avvenire che la difesa del cliente non si limiti a paralizzare, in via di eccezione, la pretesa formulata dalla banca; ma che a sua volta si spinga oltre: allegando che i pagamenti indebiti sono stati superiori alle somme erogate e in via riconvenzionale così venendo ad avanzare una pretesa di pagamento di danari nei confronti di quella.

Come va gestita, in simile eventualità, la mancata presenza in giudizio di tutti gli estratti conto di periodo? A noi pare che l’analisi della fattispecie orienti senz’altro la risposta – in principio almeno – nella direzione favorevole alla soluzione che muove il ricalcolo dal saldo zero (se il primo estratto disponibile non propone, nel concreto della sua dimensione, una soluzione più favorevole al cliente e quindi presenta con saldo per questi positivo).

Un tale ordine di risposta – va subito detto – non appare del tutto in linea con una visione pura del criterio dell’onere ex art. 2697, con una sua applicazione rigida (più che rigorosa): quest’ultimo non dovrebbe potere appoggiare, di per sé, una riconvenzionale del cliente in avere. Prevalente sembra tuttavia la considerazione che, a seguire in tale maniera il detto criterio, si finirebbe con il premiare, o in ogni caso sorreggere, il comportamento di una banca che – in pendenza di un credito non ancora soddisfatto e che, nel frattempo, viene magari calcolato nell’ambito degli attivi di bilancio – trascura di mantenere e coltivare la documentazione che pur le è necessaria per vincere l’azione giudiziaria.

Una banca – non è inopportuno altresì aggiungere – la cui organizzazione interna ha stimato di essere ben pronta alla lite (tant’è che la ha intentata) e per l’appunto ha deciso di farla (che è decisione propriamente di impresa, è chiaro7). D’altra parte, è ancora da chiedersi: in una fattispecie tipo del genere quale giustificazione potrebbe mai possedere un simile comportamento della banca?

In realtà, poste le rilevazioni appena sopra formulate8, dovrebbe essere onere di quest’ultima fornire forti ragioni e oggettivamente convincenti del comportamento tenuto, come tali atte a rintuzzare, e a superare, la presunzione hominis che si è venuta a formare – anche ai sensi degli artt. 116 e 88 c.p.c.9 – contro di essa.

5.- Sin qui nel caso sia la banca ad agire in giudizio. Per l’ipotesi in cui ad agire sia il cliente (per il recupero di pagamenti affluiti in conto e asseriti come indebiti) – e sempre avuto riguardo al punto della mancata presenza in giudizio di tutti gli estratti conto relativi al periodo di riferimento -, la secca applicazione della regola dell’art. 2697 c.c. sembrerebbe portare dirette sul cliente le conseguenze negative della relativa circostanza. Secondo quanto ha propriamente deciso, per l’appunto, la richiamata sentenza del Tribunale di Reggio.

Per la verità, delle indicazioni idonee a (quantomeno) smussare gli angoli di una simile ricostruzione possono venire con facilità alla mente. Si pensi, così, all’eventualità in cui, al tempo dell’azione del cliente, il rapporto di conto corrente sia ancora pendente. In proposito, sembra difficile non dare peso, proprio ignorare il comportamento della banca che – di fronte a un rapporto tuttora in corso di svolgimento – non si preoccupa neppure di organizzare la propria documentazione in modo tale da apparare il rischio presente di futuro inadempimento del cliente.

E pure va tenuto nel debito conto, lungo questa linea, che la banca risulta soggetta all’obbligo della tenuta delle scritture contabili ex art. 2220 c.c., se l’azione viene mossa nell’arco del decennio a cui fa riferimento tale disposizione10. Questa constatazione, peraltro, offre lo spazio per uno spunto ulteriore: che cioè viene a considerare la tenuta delle scritture in una prospettiva rovesciata rispetto a quella data dal suo fare perno naturale sul corretto agire dell’impresa nella sua attività. Nella prospettiva di tutela del cliente, quindi.

Ha dunque rilevato, tra le altre, la sentenza di Cass., 26 gennaio 2011, n. 184211: la «ratio posta a fondamento dell’obbligo di conservazione delle scritture contabili per un decennio va individuata [anche] nell’esigenza di assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all’attività imprenditoriale, rispetto a un’eventuale posizione creditoria da essi fatta valere ovvero a una contestazione sollevata, circostanza da cui discende che un eventuale inadempimento al riguardo da parte dell’istituto potrebbe eventualmente rilevare, a favore della controparte, sotto il profilo della violazione dell’art. 1375 c.c.»12.

La mancata tenuta delle scritture da parte della banca può pertanto integrare la violazione del canone fondamentale della buona fede oggettiva: la Cassazione ha fermato questo punto. Ora, se tanto vale per la (mancata) tenuta, lo stesso dovrebbe valere pure per la (mancata) produzione in giudizio: il passaggio non sembra difficile o lungo, posto che dal punto di vista del terzo – che la stessa pronuncia della Corte assume essere quello protetto – la cosa si manifesta concettualmente (e non solo) identica.

Non si tratta di aspetti da poco. Possono ritenersi sufficienti per ritenere non giustificata – nelle relative fattispecie – la mancata produzione spontanea di tutti gli estratti conto da parte della banca e apprezzare in conseguenti termini processuali il relativo contegno?

6.- Se la risposta a tale quesito potrebbe forse (e in ipotesi) rimanere anche aperta, dubbio non può sicuramente essere, a nostro avviso, il responso allorché intervenga in fattispecie – quand’anche non in addizione ai detti elementi – un’altra, e determinante, circostanza. Il riferimento va, in specie segnata, alla norma dell’art. 119, comma 4, TUB e al potere del cliente, ivi consacrato, di chiedere alla banca la documentazione «inerente a singole operazioni» (quale appunto la serie di quelle rappresentante dagli estratti conto di un determinato c/c)13, che siano state «poste in essere negli ultimi dieci anni»14.

Si tratta di norma importante, perché persegue la funzione di consentire al cliente di recuperare – con «relativa facilità – quanto (per trascuratezza, negligenza, disinteresse, disordine o altro) – egli abbia perduto»15. Più precisamente: essa assume a proprio presupposto una peculiare vicinanza della banca a certi documenti (e dunque a certe prove documentali), secondo quanto è dato di realtà; e intende portare, nei suoi svolgimenti effettuali, il cliente vicino ai documenti (ai detti documenti, meglio): avvicinarlo alle prova rientra pertanto nel focus del suo obiettivo.

Sotto il profilo strutturale, la detta norma consegna alla banca un «dovere di protezione consistente nel dare supporto documentale al cliente». Ed è supporto di particolare spessore, dato che il «diritto del cliente non ha bisogno di “titolare” in alcun modo la propria richiesta, quand’anche reiterata (pur se, ovviamente, la stessa incontrerà il limite dell’abuso e dell’emulazione); e visto pure che la «banca non potrà respingere la richiesta con esimenti di sorta; nella specie non viene a valere, cioè, il brocardo per cui nemo tenetur edere contra se». Se la banca non ottempera alla richiesta, viola un obbligo ex lege.

Dal punto di vista del valore processuale del comportamento, che qui in specie interessa, la banca – che non risponde affatto alla richiesta del cliente o che gli consegna solo una sezione incompleta di estratti – esprime significatività di univoca direzione: di violazione degli obblighi di legge ex art. 2220 c.c. o (di nascondere presso di sé documenti che in giudizio potrebbero nuocerle e quindi) di diretta violazione della norma dell’art. 119, comma 4 TUB16. In ogni caso, tale comportamento non può non dare luogo, a noi pare, a una solida presunzione hominis: per rintuzzare e superare la quale essendo la banca onerata, in effetti, del non facile compito di individuare una ragione giustificativa efficiente per la linea del proprio comportamento17.

Né va trascurato, poi, che il comportamento tenuto dalla banca in sede di risposta alla richiesta del cliente ex art. 119, comma 4, TUB finisce per vincolare i successivi svolgimenti dell’agire di questa. Data una risposta, un atteggiamento difforme tenuto in sede giudiziale dalla banca contraddice proprio l’affidamento che la risposta aveva creato: «è un venire contra factum proprium, non sembra discutibile»18.

7.- Nella corretta collocazione che gli dà la normativa del TUB, il dovere di protezione documentale della banca occupa uno spazio propriamente sostanziale; o, se si preferisce, pre-processuale. Nulla vieta, tuttavia, che il potere del cliente si esplichi – o anche si reiteri – durante il tempo del processo. E nulla vieta, altresì, che la richiesta stessa venga formulata nel contesto specifico dei relativi atti processuali.

Posti questi dati, sembrerebbe assumere rilevanza marginale il quesito se, durante il processo, la richiesta ex art. 119 comma 4 TUB possa assumere le vesti della richiesta di ordine di esibizione19. Per «obbligare» la banca, le richiesta ex testo unico non ha bisogno di passare per il medio del giudice; comunque, la prova da esibizione non vincola il giudice (ex art. 116, comma 2, c.p.c.), al pari di quanto tipicamente avviene nella prova da vicinanza (fuori dai casi, naturalmente, in cui la stessa si trova «legalizzata» in una disposizione specifica; cfr. sopra, all’interno della nota 3). Diverso potrebbe essere, in definitiva, solo il regime delle spese, dato che la norma dell’art. 210 comma 3 c.p.c. si limita ad «anticiparne» il carico sul richiedente, mentre nel contesto dell’art. 119 l’addossamento avviene in via definitiva.

Piuttosto, potrebbe chiedersi se la richiesta di ordine di esibizione degli estratti – che eventualmente il cliente venga a formulare nel corso del giudizio – non vada esposta alla luce informante della prescrizione del testo unico. In principio, la risposta a noi pare positiva, posto in specie che la norma dell’art. 119 comma 4 risulta «delineare (ovvero evocare) una sorta di ordine di esibizione stragiudiziale»20. Così, di conseguenza, in ragione della caratteristica «immotivatezza» della richiesta ex art. 119 comma 4, la valutazione di non esploratività della richiesta di esibizione dovrebbe rimanere molto blanda; nel deciderne l’ammissione o meno, d’altro canto, il giudice dovrebbe limitarsi a un riscontro di mera rilevanza della prova per il contesto del giudizio in cui la stessa è chiesta21.

8.- Secondo quanto segnala la sequenza di situazioni-tipo qui scorsa, può senz’altro affermarsi che il criterio di vicinanza della prova si mostra come cardine importante e significativo di gestione di non pochi problemi che involgono il contenzioso sul rapporto di conto corrente bancario. Si tratta, a ben vedere, di una significatività che può apprezzarsi tanto su un livello prettamente dogmatico – il criterio della vicinanza appare, per un vasto arco di ragioni, come intimo rispetto alla dimensione normativa che regge e governa i contratti dell’impresa (bancaria, ma non solo) –, quanto da un angolo di valutazione di taglio applicativo: essendo il guadagno, in punto di esiti disciplinari, derivante dal ricorso al criterio di vicinanza della prova tutt’altro che irrilevante o scontato.

E tuttavia, v’è da notare che i casi qui affrontati sembrano caratterizzarsi per un impiego della regola di vicinanza non particolarmente intenso; di un impegno nell’intrinseco non contrastante con la regola base dell’onere secondo allegazione. In effetti, il contributo della vicinanza si limita, qui, a fornire la traccia di una lettura e applicazione un poco «sofisticata» e non brutalmente meccanicistica della norma dell’art. 2697 c.c., condotta mediante il ricorso agli strumenti della presunzione semplice e dell’argomento di prova. Senza che, varcato il relativo confine, avvenga la paventata – dal giudice reggiano, ma non solo – sovversione delle regole legali.

L’ordinarietà e la non «eversività» dell’impiego della vicinanza, nelle ipotesi sopra discusse, discende – per parte grande – da un loro tratto di specificità. I casi della mancata tenuta delle scritture contabili, ovvero del mancato (soddisfacente) riscontro della richiesta ex art. 119 TUB, rappresentano infatti casi di vicinanza, per così dire, «qualificata», siccome rispondente a specifiche previsioni normative: per cui sarebbe irragionevole, se non altro, pensare che l’imprenditore bancario possa venire a trarre un utile processuale dalla loro violazione.

Si manifesta così, per contrasto, l’orizzonte in cui la regola di vicinanza alla prova potrebbe venire a suggerire una forma d’impiego «massiccio» o, per meglio dire, una sua applicazione di tratto evolutivo. Tale orizzonte si colloca, per l’appunto, negli spazi – invero, estesi – che si aprono al di fuori dei presupposti di diretta e immediata applicazione degli artt. 119 t.u.b. e 2220 c.c. Quando, cioè, il rapporto rilevante in giudizio è già chiuso da oltre dieci anni, e pure l’obbligo di conservazione del libro e delle altre scritture contabili è estinto; quando la banca non si presenta come attore.

Al riguardo, non ci si può in questa sede che limitare a un piccolo appunto, di chiusura. Se è vero che la regola di vicinanza si fonda su di un criterio eminentemente fattuale22, allora anche in quei casi in cui si realizza una sua (possibile e) tendenziale istituzionalizzazione (in cui una parte è regolarmente e per ragioni strutturali più vicina alla prova dell’altra: questo è il caso del contratto d’impresa), un discorso serio intorno al ruolo da attribuire alla detta regola non dovrebbe mai essere disancorato dall’effettivo riscontro del «fatto» della vicinanza.

Il suo impiego dovrebbe così misurarsi con una valutazione condotta in termini concreti (i.e.: secondo le circostanze della fattispecie) che assuma, come criteri ordinanti, la posizione di vicinanza, assoluta e relativa (nel senso di: comparativa), delle parti alla prova. E, al tempo stesso, indaghi la giustificabilità e ragionevolezza (intesa nel senso più ampio e pieno del termine: v. supra, nn. 6 e 7) della mancata produzione di un mezzo di prova, dalla parte che – nel caso di specie – è (più) vicina a essa.

Né le specifiche differenze di ordine soggettivo potrebbero essere trascurate: dovendosi comunque tenere conto del fatto che, proprio come è viziato da formalismo il trattare come non esistente la differenza istituzionale tra banca e cliente, anche all’interno del complesso della voce «cliente» possono venire ad apprezzarsi delle disparità (di organizzazione, dimensione, competenze) che sarebbe scorretto dimenticare.

1

Il testo della sentenza si legge per intero in IlCaso.it, n. 10414.

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2

Su tale tematica v. ora Dolmetta e Malvagna, «Vicinanza della prova» e contratti d’impresa, in corso di pubblicazione.

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3

Il modello dell’onus incumbit ei qui dicit dà vita – com’è noto – a uno schema meramente formale, in cui le parti restano identificate senza residui dalla posizione processuale che vanno ad assumere nel relativo giudizio. Differentemente, il criterio della vicinanza risponde a uno schema sostanziale che si confronta con la specifica realtà della fattispecie coinvolta nel giudizio: nel suo ambito assumono forte spessore, in specie, il punto della «prova secondo l’aspettativa del ruolo», nonché quello delle «ragioni giustificative del comportamento» tenuto in fattispecie concreta. In ragione della vigenza della regola dell’art. 2697 c.c., nel sistema attuale la vicinanza deve essere assunta (non come modello seccamente alternativo, ma) come correttivo dell’onere (tra i più correttivi, per vero, che la scelta del modello dell’onere rende necessario adottare perché la stessa possa superare il vaglio della legittimità costituzionale imposta dall’art. 24 Cost.).

Flessibile per sua propria natura, la vicinanza è idonea anche a consentire, nei suoi svolgimenti più significativi, di andare oltre alla funzione di regola residuale di giudizio che il sistema vigente si dice assegni al modello dell’onere: nel dubbio, per la vicinanza il giudice deve comunque risolvere il giudizio senza potere ricorrere al rifugio di soluzioni preconfezionate e astratte dalla fattispecie in concreto giudicata (naturalmente, questo discorso non vale quando la vicinanza è posta dal legislatore come ragione giustificativa di una specifica presunzione legale, sì da realizzare un’ipotesi di «legalizzazione» del criterio: e sul punto – con riferimento puntuale alla norma dell’art. 23 comma 6 TUF – v. Corrias, Contratto di capitalizzazione e attività assicurativa, Milano, 2011, p. 185).

In una versione avanzata, la vicinanza può anche «trasformarsi» nella previsione di un obbligo di disclosure, in base al quale ogni parte è «tenuta a produrre tutte le prove rilevanti che sono in suo possesso o nella sua disponibilità, ivi comprese le prove che per tale parte produrrebbero effetti sfavorevoli» (cfr. Taruffo, in La prova nel processo civile, a cura del medesimo, nel Comm. Cicu, Messineo, Mengoni, Schlesinger, Milano, 2012, p. 256, che sottolinea l’importanza, in proposito, di individuare una sanzione «adeguata» per il caso di violazione di un simile obbligo).

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4

Sulla tematica del rapporto tra «saldo zero» e criterio della vicinanza il dibattito si sta accendendo in giurisprudenza: v. di recente, sugli opposti fronti, Trib. Brindisi, 9 agosto 2012, su IlCaso.it e Trib. Arezzo, Sez. Montevarchi, n. 91/2013, su Expartecreditoris.it. (su posizioni più radicali, quest’ultima, di quanto fatto dalla sentenza del Tribunale di Reggio Emilia cui si fa riferimento nel testo).

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5

Sull’indiscutibile applicazione, in questa ipotesi, del saldo zero v., di recente Accettella, La “depurazione” del saldo del conto corrente dagli interessi anatocistici (tra assenza di estratti conto ed irrilevanza dei c.d. “conti d’ordine”), in Banca e borsa, 2010, II, p. 637 s. (: altrimenti, «non vi è modo … per sapere come quel saldo si sia formato»); ivi pure, ulteriori riferimenti (e altri ancora nell’interessante sentenza di Trib. Napoli, 8 gennaio 2009,lì commentata).

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6

Afferma adesso il Trib. Taranto, 28 maggio 2014 (in IlCaso.it, n. 10514), che «l’art. 50 T.U. bancario si applica anche agli intermediari finanziari, come tutta la restante disciplina, per cui l’estratto conto conforme alle scritture contabili sottoscritto dal legale rappresentante della finanziaria è prova scritta idonea alla concessione del decreto ingiuntivo». Per la contraria opinione v., tra gli altri, Condemi, Commento all’art. 50, nel Comm. Capriglione, ed. 3, Padova, 2012, II, p. 583 (in questo saggio anche cenni sull’evoluzione della considerazione giurisprudenziale a proposito della norma in questione).

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7

Decisione del resto che, alla prova dei fatti, si mostra avventata (comunque, non ben ponderata): vista l’eccezione (sino al nulla è dovuto) manifestata dal cliente.

Lo spessore dell’osservazione, che si svolge nel testo, va parecchio al di là, in altri termini, il semplice livello della formula «hic Rhodus, hic salta».

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8

Per l’ipotesi qui presa in considerazione possono in ogni caso essere utilizzate (per il punto della riconvenzionale) anche le linee di ragionamento considerate nel prossimo n. 6.

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9

Risolvendo una controversia relativa alla «ripetizione di tutti gli importi corrisposti e non dovuti a titolo di polizze assicurative» legate alla stipulazione di due contratti di leasing, la decisione dell’ABF Milano, 12 marzo 2014, n. 1412, ha stabilito che «l’assenza di contraddittorio, per cui ha deliberatamente optato» la società di leasing, può «costituire elemento sufficiente a fare ritenere provato l’indebito addotto» dal cliente: «l’impianto procedimentale dell’Arbitro Bancario Finanziario non si limita … a consegnare alla parte resistente la facoltà di contraddire, bensì imprime a siffatto diritto al contraddittorio altresì natura di specifico obbligo di cooperazione».

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10

Il tema dell’individuazione dell’effettivo dies a quo del termine di conservazione legale delle scritture contabili di carattere contrattuale ex art. 2220 c.c. resta, in buona sostanza, ancora da esplorare per gran parte, secondo quanto certamente non è possibile fare nella presente sede. Basta qui accennare che, di per sé, il tenore della norma sembra connettere la decorrenza (non già al tempo di confezione della singola scrittura, ma) al momento in cui il libero contabile risulta completato; per la tesi per cui comunque il termine decennale non corre proprio durante l’intero periodo di pendenza di rapporto v., peraltro, Dolmetta, Sui depositi bancari a vista: tra prescrizione, arricchimento e doveri di avviso (con annessa appendice di decisioni dell’ABF), in IlCaso.it, n. 304/2012; ID., Funzione di provvista del credito vs funzione di «custodia» nel contratto bancario di raccolta a vista. Da un’idea di Niccolò Salanitro, in Banca e borsa, 2013, I.

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11

Che pure viene citata dalla sentenza del Tribunale reggiano: ma solo in relazione a un diverso punto – seppure decisamente contiguo, prima di ogni altra cosa invia di espressione grafica – della motivazione complessivamente resa dal Supremo Collegio.

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12

Ha poi ritenuto la decisione dell’ABF, Collegio Milano, 13 luglio 2012, n. 2397, che «il termine delle durata dell’obbligo di conservazione delle scritture contabili dà luogo solo alla facoltà di non conservarle ulteriormente, ma l’esercizio di una facoltà non può essere invocato al fine di limitare un diritto altrui».

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13

Per cautelarsi dalla censura di richiesta generica, sarà opportuno indicare ne dettaglio gli estremi degli estratti di cui si chiede copia.

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14

Il carattere di operazione unitaria, che la giurisprudenza della Corte di Cassazione (SS.UU., 2 dicembre 2010, n. 24418) riconosce al c/c, rende attendibile la tesi che questo termine decorra dal tempo della chiusura del conto medesimo.

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15

Cfr. Dolmetta, Trasparenza dei prodotto bancari. Regole, Bologna, 2013, p. 108 s., da cui pure i successivi virgolettati contenuti nel testo del presente paragrafo.

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16

Volpino, in La prova nel processo civile, a cura di Taruffo, cit., p. 812: «l’emanazione di un ordine di esibizione rivolto nei confronti di una delle parti della controversia trae la propria fondamentale giustificazione dal fatto che tale parte, fino a che il giudice glielo ordinasse, si era ben guardata dal produrre spontaneamente in giudizio la fonte di prova documentale, con tutta probabilità perché ad essa sfavorevole sul piano probatorio».

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17

«Spetta al giudice, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., determinare se e in quale senso possa essere valutata la condotta della parte che ha enunciato di aver proceduto alla distruzione dei documenti necessari alla decisione»; va «infatti affermato che la parte è tenuta a conservare la documentazione richiesta finché il giudice non abbia definitivamente e negativamente provveduto sull’istanza stessa e che, a tal fine, nessuna rilevanza può assumere la maturazione, medio tempore, del temine decennale dell’obbligo di conservazione»: Cass., 7 marzo 1997, n. 2086.

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18

Posta una simile preclusione in capo alla banca, bisognerebbe quindi chiedersi quale sia la coerenza logica di una differenziazione – in punto di distribuzione dell’onere della prova – tra il caso in cui il cliente sia attore e quello in cui questo sia il convenuto. Se si ritiene che la banca, in veste d’attrice, non possa produrre quegli estratti conto che non aveva fornito al cliente, che li aveva richiesti ex art. 119 TUB (dovendosi quindi fare applicazione del saldo zero a partire dal momento dell’ultimo estratto continuo) – e però al tempo stesso si nega al cliente, che agisca sulla base di quella documentazione, la possibilità di avvantaggiarsi del calcolo secondo il saldo-zero – si giunge al risultato di «costringere» il cliente, che abbia ricevuto riscontro soltanto parziale alla propria richiesta documentale, alla scelta strategica (parecchio rischiosa e decisamente non coerente con la linea dei principi) di non adempiere, attendendo l’azione della banca. Ora, se si considera quest’ipotesi di assetto normativo alla stregua della sua coerenza teleologica rispetto ai valori di vertice che in questa materia sono coinvolti (artt. 2 e 24 Cost., soprattutto), diventa forte la percezione della necessità costituzionale di una interpretazione e applicazione «adeguatrice» della regola dell’art. 2697 c.c.; tale da non indurre a comportamenti scorretti, premiandoli tramite la disciplina del processo.

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19

Per Pisapia, L’onere della prova nel contenzioso in materia di rapporti di conto corrente bancario, in diritto bancario.it, p. 7, l’istanza di ordine di esibizione «dovrebbe ritenersi inammissibile» quando il cliente abbia formulato in via precontenziosa la richiesta ex art. 119 ovvero la faccia «in corso di causa o contestualmente alla notifica della citazione».

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Dolmetta, op. cit., p. 107.

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21

E’ noto, peraltro, che, secondo il corretto indirizzo della moderna dottrina, la valutazione di «necessità» ex art. 210 comma 1 c.p.c. va risolto in giudizio di semplice «rilevanza» (Cavallone, Esibizione delle prove nel giudizio processuale civile, in Dig. civ., ed. 4, VII, Torino, 1991, p. 672; Patti, Le prove. Parte generale, in Tratt. Iudica e Zatti, Milano, 2010, p. 89; Volpino, op. cit., p. 841).

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22

E in quanto tale elastico, come volto all’indagine concreta e complessiva della fattispecie concreta: v. supra, n. 2.

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