La vicenda all’esame della Suprema Corte trae origine da un decreto ingiuntivo emesso nel 1995, dietro ricorso della Banca Nazionale del Lavoro e nei confronti di un suo cliente, per saldo debitorio di conto corrente. La condanna oggetto di tale decreto veniva confermata nei due gradi di merito, per poi incontrare un arresto in un primo giudizio di cassazione con rinvio. Quest’ultima pronuncia era fondata, in particolare, sulla dichiarazione di nullità della clausola, prevista nel contratto di conto corrente, per cui gli interessi dovuti dal cliente sarebbero stati misurati «secondo gli usi su piazza».
A tale decisione faceva seguito il giudizio di rinvio, nell’ambito del quale veniva esperita una consulenza tecnica atta a ricostruire i rapporti di dare-avere tra le parti, al fine specifico di determinare l’effettiva incidenza della clausola «interessi uso piazza» sul montante del credito preteso dalla banca; in altre parole, si chiedeva al perito di misurare nuovamente tale credito, applicando al capitale i tassi d’interesse legale in luogo dei tassi nel tempo praticati in base alla clausola invalida. Per svolgere tale attività, risultava essenziale la completa documentazione del rapporto – in specie, gli estratti conto a partire dal giugno 1976, data di accensione –, che tuttavia la banca non produceva, ponendo a disposizione del perito la sola documentazione relativa al periodo giugno 1991-luglio 1995. L’ente creditizio adduceva, a giustificazione di tale condotta – che violava, peraltro, un ordine di esibizione formulato ex art. 210 c.p.c. dal giudice del rinvio –, la distruzione della documentazione relativa al periodo precedente per decorso del termine decennale di conservazione delle scritture contabili di cui all’art. 2220 c.c. Ciò non poteva che tradursi in una intrinseca parzialità della perizia, riconosciuta del resto dal suo stesso autore: la mancata conoscenza dei dati relativi all’intero rapporto venendo irrimediabilmente a precludere la puntuale determinazione del montante creditizio. Nondimeno, il giudice del rinvio condannava il cliente, e quest’ultimo ricorreva per una seconda volta al giudice del diritto.
La Suprema Corte accoglie il ricorso, affermando il consolidato principio di diritto secondo cui la banca non può invocare l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dall’ultima registrazione al fine di sottrarsi dall’onere di provare il proprio credito (cfr. Cass. 1584/2017, Cass. 7972/2016, Cass. 19696/2014 e Cass. 1842/2011). Tale principio si pone in linea con la constatazione, di ordine istituzionale, per cui il creditore che asserisce di vantare un credito ne deve provare in sede di opposizione a decreto ingiuntivo il preciso ammontare. D’altro canto, rileva pure la Corte, il comportamento della Banca che si disfa della documentazione afferente a un credito di cui non ha ancora ottenuto il soddisfacimento, si manifesta, in sé stesso, di negligenza grave, violando apertamente il dovere di «sana e prudente gestione» di cui all’art. 5 del T.U.B.