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Giurisprudenza

Violazione degli obblighi di adeguata verifica della clientela ed elemento soggettivo del reato

30 Novembre 2015

Luca Benvenuto, Associate, Orrick, Herrington & Sutcliffe LLP

Cassazione Penale, sez. IV, 05 novembre 2015, n. 46415

Di cosa si parla in questo articolo
AML

Con la sentenza n. 46415 del 2015, la IV Sezione Penale delle Corte di Cassazione torna ad occuparsi delle violazioni delle disposizioni volte al contrasto del riciclaggio, con specifico riferimento alle norme in materia di adeguata verifica della clientela, sotto l’aspetto dell’elemento soggettivo del reato. La pronuncia in esame, nello specifico, ribadisce la sufficienza dell’elemento del dolo generico, inteso quale coscienza e volontà della violazione, per poter configurare il delitto di cui al combinato disposto degli artt. 15, 18 e 55 del D.Lgs. 231/2007 (il “Decreto Antiriciclaggio”), escludendo di contro la rilevanza delle ragioni addotte che non integrino, tecnicamente, gli estremi delle cause di giustificazione.

La ricostruzione dei fatti di causa

Nel caso di specie, il processo si riferiva ad una consulente fiscale e del lavoro la quale, attraverso artifizi e raggiri, da un lato si faceva consegnare il denaro per gli adempimenti fiscali e previdenziali rilasciando false quietanze di pagamento e, dall’altro, per quanto in questa sede di interesse, falsificava richieste di finanziamento da parte dei propri assistiti, producendo tali documenti agli intermediari.

Unitamente alla consulente fiscale (condannata per la commissione di molteplici illeciti penali), il giudice di prime cure condannava altresì due impiegate dell’ufficio postale le quali, preposte all’istruttoria delle pratiche di erogazione dei prestiti personali in virtù di un apposito accordo tra Poste Italiane e una società finanziaria, avevano omesso di effettuare l’adeguata verifica del cliente, accettando le proposte presentate dalla consulente (in possesso, peraltro, di copia dei documenti dei propri clienti) e, talvolta, corrispondendo a quest’ultima le relative somme.

La Corte d’Appello, accogliendo i ricorsi presentati dalle due impiegate coinvolte, riformava la sentenza di condanna di primo grado, assolvendo le appellanti perché il fatto non costituisce reato.

Avverso la sentenza del giudice di appello ricorreva il procuratore generale presso la Corte di Appello, contestando le motivazioni in forza sottese alla sentenza di assoluzione.

La decisione della Cassazione

In particolare, il giudice di appello aveva ritenuto di dover assolvere le due imputate dai reati loro ascritti per carenza dell’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie delittuosa in discussione, rappresentato dal dolo generico.

Come noto, l’art. 15 del Decreto Antiriciclaggio impone agli intermediari finanziari (e tra questi è certo ricompresa anche Poste Italiane S.p.A.) di osservare gli obblighi di adeguata verifica nei confronti della propria clientela, con riferimento tanto al compimento di singole operazioni quanto all’instaurazione di rapporti continuativi che diano luogo ad una molteplicità di movimentazioni di somme di denaro. Il contenuto specifico di tali obblighi è declinato all’interno del successivo art. 18, laddove si chiarisce che l’adeguata verifica si sostanzia (i) nell’identificazione del cliente, sulla base di documenti, dati o informazioni ottenuti da una fonte attendibile e indipendente; (ii) nell’identificazione del titolare effettivo del rapporto, ovvero il soggetto cui – in ultima istanza – l’operazione sia riconducibile; (iii) nell’acquisizione di informazioni sullo scopo e sulla natura del rapporto e (iv) nello svolgimento di un controllo costante nel corso del rapporto.

La violazione di tali disposizioni, a mente dell’art. 55 del Decreto Antiriciclaggio, costituisce un illecito penale e, nello specifico, un delitto sanzionabile con la multa sino a € 13.000.

Nel caso in discussione, dagli atti di causa è emerso in maniera evidente (né le imputate hanno contestato) che l’attività di adeguata verifica secondo i crismi di cui all’art. 18 del Decreto Antiriciclaggio non abbia avuto luogo: infatti, è emerso che la consulente si è recata autonomamente presso gli uffici postali, consegnando documenti asseritamente sottoscritti dai propri clienti, dei quali è stata peraltro esibita copia dei documenti di identità, senza che tale circostanza abbia indotto le imputate ad attivare alcun processo di adeguata verifica nei confronti dei clienti effettivi.

Peraltro, giova rammentare che la normativa consente di attivare rapporti continuativi anche a distanza, dunque senza la presenza fisica del cliente (magari rappresentato da un nuncius) dinnanzi all’intermediario: tuttavia, ricorrendo tale circostanza, a norma dell’art. 28 del Decreto Antiriciclaggio[1] l’intermediario sarebbe chiamato ad applicare misure rafforzate tese a riscontrare l’effettiva identità del “cliente”, e non tanto del mero esecutore che si sia presentato.

Ebbene, risultando incontestata la ricostruzione dei fatti di causa e dunque dell’elemento oggettivo della fattispecie, la difesa delle imputate ha fatto leva sulla carenza dell’elemento soggettivo, ovvero l’assenza di dolo che avrebbe caratterizzato la condotta delle due dipendenti.

In altri termini è stato osservato (e la Corte d’Appello ha convenuto su tale linea) che le imputate non avrebbero inteso violare le disposizioni del Decreto Antiriciclaggio in materia di adeguata verifica, essendosi semplicemente fidate di una persona ben nota e conosciuta (per l’appunto, la consulente fiscale), che godeva di buona credibilità. Ad abundantiam, la circostanza che una delle imputate avesse successivamente sporto denuncia contro la consulente, una volta giunta a conoscenza delle truffe da quest’ultima organizzate, avrebbe dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio l’insussistenza di alcuna collusione criminosa.

I giudici di legittimità sono addivenuti alla propria determinazione di cassare la pronuncia di secondo grado, non contestando la ricostruzione dei fatti né il percorso logico-argomentativo adottato dalla Corte d’Appello, bensì limitandosi a censurarne le conclusioni che, pur partendo da corretti presupposti, sono risultate illogiche e contraddittorie.

Non appare infatti in discussione la circostanza che le imputate abbiano tenuto una condotta irregolare, venendo meno all’ordinario adempimento degli obblighi di adeguata verifica che rappresentano il primo pilastro sul quale si innesta, nel nostro Paese, la disciplina tesa a contrastare il fenomeno del riciclaggio di denaro: ciò che appare, tuttavia, censurabile, è rappresentato dalla prosecuzione della motivazione addotta dal giudice d’appello, ove viene dato risalto alla circostanza per la quale le imputate avrebbero confidato sulla credibilità propria della consulente; credibilità, peraltro, rafforzata dalla presenza, nell’incartamento relativo alla pratica di erogazione del finanziamento personale, della copia dei documenti identificativi dei presunti richiedenti.

In realtà, come correttamente evidenziato dalla Suprema Corte, l’elemento del dolo generico richiesto ai fini della configurabilità della fattispecie delittuosa di cui si discute, è rappresentato dalla coscienza e volontà di agire in violazione di una disposizione normativa (nel caso di specie, gli artt. 15 e 18 del Decreto Antiriciclaggio): ebbene, nel momento stesso in cui le imputate sono state consapevoli di violare le disposizioni di cui al Decreto Antiriciclaggio, omettendo il regolare adempimento degli obblighi di adeguata verifica, alla condotta illecita si è aggiunto automaticamente anche l’elemento soggettivo del dolo.

A nulla rileva la circostanza che la violazione sia stata indotta dal comportamento truffaldino della consulente: la credibilità di quest’ultima non rappresenta certo un elemento idoneo e sufficiente a far venir meno il rispetto degli obblighi gravanti sui dipendenti chiamati all’adempimento delle norme in materia di antiriciclaggio, né consente di escludere l’antigiuridicità del fatto posto che, evidentemente, tale elemento non integra alcuna ipotesi di causa di giustificazione.

Conseguentemente, la Corte di Cassazione conclude nel senso che l’irregolarità rappresentata dalla mancata osservanza delle norme di adeguata verifica sancite negli artt. 15 e 18 del Decreto Antiriciclaggio, come attuate a livello aziendale anche per il tramite delle relative procedure, sia chiaramente connotata dall’elemento del dolo generico.

 


[1] Come peraltro ribadito anche dal provvedimento attuativo adottato dalla Banca d’Italia in data 3 aprile 2015 in materia di adeguata verifica, modificato in data 31 luglio 2015.

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