Il processo di globalizzazione che ha inevitabilmente interessato il settore dell’economia, la crescente integrazione dei mercati e la mobilità che ormai connota i fattori produttivi e i flussi finanziari hanno dato luogo ad un radicale cambiamento destinato a ripercuotersi anche nelle scelte di allocazione dei redditi effettuate dai singoli contribuenti. Tali decisioni avvengono nel contesto internazionale e risultano sempre più svincolate dal radicamento territoriale dei singoli Stati.
Gli effetti di questo incessante processo hanno fatto registrare una connessione, ormai evidente, tra l’evasione fiscale e i fenomeni di riciclaggio internazionale, in quanto il ricorso a sistemi finanziari esteri rappresenta una soluzione ancora praticabile per la raccolta ed il deposito di capitali al fine di reinvestire i proventi ricavati dalle attività illecite o di celare materia imponibile alle pretese dell’Erario.
In questo complesso ed ampio scenario, la voluntary disclosure riveste un ruolo di preminente interesse atto a contrastare i fenomeni che si concretano nella sottrazione di redditi all’imposizione di uno Stato mediante l’allocazione fittizia all’estero della residenza fiscale o, talvolta, anche solo attraverso l’illecito trasferimento e/o la detenzione all’estero di attività produttive di reddito.
Nella consapevolezza dell’inefficacia o dell’obsolescenza degli istituti attualmente vigenti ed operanti, la collaborazione volontaria in Italia dovrebbe essere collocata nell’ottica del potenziamento degli strumenti di compliance; a tal fine, la circolare 25/E del 31 luglio 2013 ha affidato all’Unità centrale per il contrasto dell’evasione internazionale (UCIFI) il compito di condurre la lotta all’evasione internazionale proprio mediante la voluntary disclosure di attività economiche e finanziarie illecitamente detenute all’estero.
L’istituto in commento muove dall’esigenza, sempre più avvertita, di rilevare i capitali illecitamente esportati e far rientrare in Italia tutte le somme oggetto di trasferimento all’estero, e ivi detenute, in aperta violazione delle norme sul monitoraggio fiscale. Nello specifico, la collaborazione volontaria consiste in una procedura diretta alla ricostruzione dei fatti di evasione che costituiscono il fondamento dei depositi esteri, che si chiude con il pagamento delle imposte dovute e degli interessi, ma con una sensibile riduzione delle sanzioni amministrative e con una forte attenuazione della punibilità per i reati tributari.
A tal fine, le proposte di legge, A.C. 2247-A Causi e A.C. 2248 Capezzone hanno inteso riproporre il contenuto dell’art. 1 del decreto legge n. 4/2014, soppresso durante l’esame parlamentare del disegno di legge di conversione e poi trasfuso nelle proposte di legge in esame. Scopo dell’intervento legislativo in parola è quello di introdurre l’istituto della collaborazione volontaria mediante l’inserimento degli artt. da 5-quater a 5-septies nel decreto legge del 28 giugno 1990, n. 167, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 1990 n. 227, recante la disciplina sul monitoraggio fiscale.
In un mutato scenario sovranazionale, teso all’inasprimento della lotta all’evasione fiscale, la voluntary disclosure rappresenta uno strumento volto a concedere un’ultima possibilità a quanti detengono asset all’estero in violazione della normativa sul monitoraggio fiscale.
A tal proposito, non vi è dubbio che FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act) ha avuto una forza dirompente nell’instaurarsi del processo di trasparenza ormai evidentemente in atto. L’applicazione della normativa di matrice statunitense, fondata sul dogma della trasparenza fiscale è considerata infatti un’arma letale contro il segreto bancario: in Italia il suo recepimento, mediante la stipula dell’Iga (Intergovernmental Agreement), risulta tuttora in corso, ma l’accordo dovrebbe entrare in vigore retroattivamente dal 1° luglio 2014. In ragione di tale intesa, viene imposto, dunque, alle “foreign financial institutions” di optare tra due soluzioni: concludere un accordo vincolante con l’IRS, “Internal Revenue Service”, allo scopo di identificare gli investitori USA, detentori di conti o strumenti finanziari in Stati diversi da quello di residenza, ovvero, subire una tassazione del 30% sui redditi di natura finanziaria di fonte USA.
L’Iga permetterà un potenziamento della compliance fiscale internazionale da attuarsi attraverso un reciproco ed effettivo scambio di informazioni tra le autorità appartenenti ai diversi Stati aderenti. In tal modo, peraltro, sarà possibile anche ridurre i costi previsti dalla odierna burocrazia e minimizzare gli adempimenti legati alle attività accertative.
Nella medesima direzione, tesa ad abbandonare il segreto bancario, si stanno muovendo numerosi Stati europei, come da ultimo anche la Francia che ha inoltrato espressa richiesta all’amministrazione finanziaria svizzera di ricevere informazioni in merito a circa 300 clienti francesi di un istituto bancario elvetico, sospettati di alcune irregolarità fiscali. Questa vicenda si inserisce a pieno titolo nell’ambito del mutamento di prospettiva che sta interessando gli strumenti di compliance volti all’emersione dei redditi sommersi.
L’attuale quadro normativo, con l’entrata in vigore di nuovi istituti, la stipula di accordi fiscali e il costante adeguamento agli standard internazionali, sta subendo un profondo processo di modifica volto a decretare la fine del segreto bancario; fine che in Svizzera è stata stimata entro il 2017, con la conclusione dell’intesa avvenuta, in sede OCSE, a Parigi il 6 maggio 2014. Tale ultima data coinciderà con la fuoriuscita del Paese dalla c.d. Black list dei paradisi fiscali, annullando definitivamente la privacy bancaria.
Con riferimento specifico ai capitali detenuti in Paesi Black list (tra i quali la Confederazione Elvetica, presso le cui istituzioni bancarie risulta depositata gran parte delle attività potenzialmente oggetto di emersione) corre tuttavia l’obbligo di evidenziare due fattori critici.
Quanto al primo, si noti che le disposizioni sul raddoppio dei termini di accertamento e quelle sulla maggiorazione delle sanzioni relative alle violazioni degli obblighi di monitoraggio fiscale diventano oggetto di disapplicazione nel testo vigente della voluntary solo qualora gli Stati esteri, dove le somme sono detenute, stipulino entro il termine di 60 giorni dalla entrata in vigore della voluntary accordi che consentano uno scambio effettivo di informazioni ai sensi dell’articolo 26 del Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni. Non si può non considerare, pertanto, che, laddove detti accordi non si realizzino in prossimità dell’entrata in vigore del provvedimento sulla voluntary, tale circostanza causerà un chiaro ritardo nel rientro del gettito atteso dal provvedimento medesimo (con non poca apprensione, si aggiunge, per chi attende di poter regolarizzare la propria posizione nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria italiana). Inoltre, l’onere legato alle sanzioni connesse alla emersione e al numero di annualità da sanare diverrebbe proibitivo, anche per chi debba sanare esclusivamente profili legati alla violazione dei soli obblighi di monitoraggio.
In merito al secondo profilo critico, si consideri che allo stato attuale, un soggetto residente in uno Stato membro dell’UE è tenuto a subire la c.d. euroritenuta, ossia una ritenuta alla fonte sugli interessi al fine di beneficiare della possibilità di non consentire lo scambio di informazioni. Ora, qualora questi aderisse alla procedura della collaborazione volontaria, verrebbe a trovarsi nella condizione di subire per le annualità pregresse un doppio prelievo fiscale dovendo corrispondere le imposte richieste dalla Amministrazione italiana pur avendo già subito il prelievo dell’euroritenuta.
Pur in assenza di una specifica disposizione contenuta nella normativa sulla voluntary, si deve ritenere che, dovendo il processo di emersione connesso al rientro dei capitali, avvenire nell’ambito di una procedura di accertamento con adesione, le parti possano valutare la possibilità di addivenire allo scomputo della euroritenuta subita. Ciò laddove il contribuente sia in grado di ricostruire e documentare analiticamente i rendimenti ottenuti in ciascun anno. Viceversa, detta possibilità deve ritenersi preclusa quando, su istanza, il contribuente richiede la determinazione dei rendimenti in misura pari al 5 per cento sul valore complessivo a fine anno. Ovviamente andrà considerato che lo scomputo dovrà essere effettuato solo sulla componente di euroritenuta di cui abbia beneficiato lo Stato italiano (infatti, seguendo il cosiddetto regimedel revenue sharing, l’euroritenuta spetta per il 25% del suo ammontare allo Stato di residenza dell’agente pagatore, mentre nelle casse del Paese di residenza del beneficiario effettivo confluisce il restante 75%).
Entrambe le problematiche segnalate dovranno trovare nelle prossime settimane una loro soluzione, diversamente verrebbero in parte vanificate le aspettative di successo della emersione del rientro dei capitali.