Il Consiglio Nazionale del Notariato ha pubblicato lo Studio n.40-2024/I, sulla nuova disciplina del voto plurimo e del voto maggiorato nella legge a sostegno della competitività dei capitali, a cura del Notaio Federico Magliulo.
La legge 5 marzo 2024 n. 21 (c.d. legge capitali), infatti, ha apportato modifiche alla disciplina del voto plurimo nelle società per azioni di cui all’art. 2351 c.c., nonché alla disciplina del voto maggiorato nelle società quotate di cui all’art. 127-quinquies del D. Lgs. 58/1998.
L’Autore, nello studio pubblicato, ripercorre preliminarmente il principio di proporzionalità nell’ambito del diritto di voto degli azionisti in seno all’assemblea, di cui all’art. 2351/1 C.c., in base al quale tale diritto spetta a ciascun socio in proporzione alla partecipazione al capitale sociale: principio espresso dalla nota sigla OSOV (“one share one vote”) e che pone in diretta correlazione i poteri gestori nell’ambito della società ed il rischio d’impresa; nelle società quotate, inoltre, tale principio ha consentito di assicurare la contendibilità del controllo societario.
Tale principio, tuttavia, non è inderogabile, e, dal 2014, anche in Italia, è comunque prevista la possibilità del c.d. voto plurimo (ovvero la concessione di più di un voto per singola azione), che, in sostanza, finisca per privilegiare l’aspirazione del ceto imprenditoriale al controllo della gestione aziendale, indipendentemente dalla percentuale di possesso azionario.
La L. 21/2024, per venire maggiormente incontro a tali esigenze, pertanto:
- ha modificato l’art. 2351 C.c. aumentando da 3 a 10 il numero di voti attribuibili alle azioni a voto plurimo (introdotto nel nostro ordinamento dalla legge di conversione del D.L. 91/2014);
- per le società quotate ha modificato il comma 1 dell’art. 127 quinquies del TUF sul voto maggiorato, ampliandolo fino ad un massimo di dieci voti, ma solo se:
- lo statuto preveda il voto maggiorato nella misura minima di due voti per azione
- sia maturato l’ulteriore periodo di possesso delle azioni di 12 mesi, poiché la disposizione normativa modificata prevede la possibilità di attribuire un voto ogni dodici mesi, fino ad un massimo di dieci voti per azione, successivo alla maturazione del periodo di 24 mesi che attribuisce il voto maggiorato (iniziale) nella misura minima di due voti per azione
Per le società quotate dunque, secondo l’Autore, lo statuto potrebbe in un primo tempo limitarsi a prevedere il voto maggiorato nella misura minima di due voti di cui all’art. 127-quinquies, comma 1, del Tuf e, successivamente, potrebbe essere introdotta la clausola statutaria di ampliamento di cui all’art. 127-quinquies, comma 2, del Tuf: da tale norma si desume, invero, in modo inequivocabile per l’Autore che l’ampiamento del voto maggiorato fino ad un massimo di dieci voti per azione possa essere disposto con modifica statutaria introdotta in epoca successiva alla previsione del voto maggiorato nella misura minima.
La nuova norma parrebbe essere diretta ad escludere che siffatto ampliamento possa essere disposto con efficacia retroattiva: il periodo necessario per ottenere l’ampliamento del voto maggiorato inizierebbe a decorrere, per l’Autore, dall’iscrizione nel registro delle imprese della modifica statutaria, in ossequio al principio generale secondo cui la deliberazione recante modifica statutaria “non produce effetti se non dopo l’iscrizione” (art. 2436, penultimo comma, c.c.).
Quanto alle azioni a voto plurimo, queste parrebbero inibite alle società quotate in forza dell’immutato art. 127 sexies, comma 1, del TUF: tuttavia, in forza dei commi successivi dello stesso articolo, anche una società che intenda quotarsi in borsa può emettere azioni a voto plurimo prima della quotazione e mantenerle anche dopo le negoziazioni; inoltre, potrà anche emettere nuove azioni a voto plurimo con le stesse caratteristiche e diritti di quelle già emesse.
Le azioni a voto plurimo sono più convenienti per gli azionisti di riferimento rispetto alle azioni a voto maggiorato:
- consentono a ciascuna azione di avere, anche incondizionatamente, fino a un massimo di 10 voti, mentre quelle a voto maggiorato consentono tale maggiorazione (i) fino a un massimo di soli due voti (ed a condizione che ciascuna azione fosse appartenuta al medesimo soggetto per un periodo continuativo non inferiore a ventiquattro mesi), (ii) fino a un massimo complessivo di dieci voti, con l’attribuzione di un voto ulteriore alla scadenza di ogni periodo di 12 mesi, successivo alla maturazione del periodo di 24 mesi, in cui l’azione sia appartenuta al medesimo soggetto
- rappresentano una categoria speciale di azioni (a differenza di quelle a voto maggiorato), per cui il detentore delle medesime può trasferire ai suoi aventi causa, anche a titolo particolare, gli speciali diritti connessi alla categoria. In tal modo l’azionista in questione può trasmettere, unitamente alle azioni in questione, anche il controllo che esse, grazie al voto plurimo, eventualmente garantiscono sulla società e conseguire, in sede di alienazione, il valore economico di tale controllo (il c.d. majority premium)
- consentono di determinare a priori il numero dei voti esprimibili in assemblea: le azioni a voto maggiorato, a contrario, non lo consentono e, pertanto, gli equilibri assembleari possono mutare continuamente in dipendenza della maturazione o della perdita dei requisiti necessari per l’attribuzione del voto maggiorato.
Secondo l’Autore la nuova formulazione dell’art. 2351 c.c. derivante dalla legge n. 21/2024 ha ulteriormente esasperato il meccanismo già avviato nel 2014 di diminuzione quantitativa del principio di correlazione fra potere di gestione e rischio d’impresa, in quanto l’emissione di azioni prive del diritto di voto fino alla metà del capitale sociale e la contemporanea emissione di azioni a voto plurimo munite di dieci voti (che rappresenta il nuovo limite massimo consentito) fa sì che, per disporre di più della metà dei voti esercitabili in assemblea, occorre detenere almeno il 4,6% del capitale in azioni munite di dieci voti ciascuna.
L’Autore, dopo aver passato in rassegna tutte le diverse possibili tipologie di azioni a voto plurimo vigenti nell’attuale sistema di diritto positivo e le problematiche non risolte dalla novella legislativa, affronta il tema della rinuncia al diritto di voto plurimo, ricordando che l’art. 2351 c.c. tace al riguardo a fronte di una specifica disciplina dettata per le azioni a voto maggiorato, per le quali il terzo comma dell’art. 127-quinquies del Tuf dispone che “gli statuti possono altresì prevedere che colui al quale spetta il diritto di voto possa irrevocabilmente rinunciare, in tutto o in parte, al voto maggiorato”.
L’Autore formula alcune considerazioni sistematiche sul punto, che possono trovare accoglimento anche per le società non quotate e, dunque, per le azioni a voto plurimo di cui all’art. 2351 c.c.:
- la necessità della previsione statutaria della rinuncia pare idonea ad informare i terzi della possibilità che l’attribuzione del diritto di voto in assemblea possa mutare anche in dipendenza della volontà del titolare delle azioni con voto maggiorato;
- le necessità che la rinunzia in esame sia irrevocabile nel senso sopra precisato tende evidentemente a limitare la mutevolezza della volontà dell’azionista e la conseguente confusione che essa potrebbe determinare nell’organizzazione corporativa della società.
L’Autore svolge poi alcune considerazioni conclusive in relazione all’introduzione delle azioni a voto plurimo dopo la costituzione della società, in considerazione della mancanza, da parte della legge n. 21/2024, di una disposizione transitoria.
Per l’Autore, poiché il legislatore non ha modificato l’art. 212 Disp. Att. C.c., non pare dubitarsi che l’introduzione del voto plurimo, anche nella sua versione ampliata dalla legge n. 21/2024, nello statuto di una società che non lo prevedeva affatto, nemmeno nella forma del voto triplo, debba soggiacere alla menzionata disposizione transitoria.
Si tratta pur sempre infatti di procedere alla “creazione di azioni a voto plurimo ai sensi dell’articolo 2351 del codice”, sia pure nel testo aggiornato per effetto della legge n. 21/2024: la mancata modifica del citato art. 212 ad opera della legge n. 21/2024 pare indicativa della volontà del legislatore di mantenere ferme per la delibera di approvazione le maggioranze ivi indicate (2/3 del capitale sociale), anche per il voto multiplo ampliato, in ossequio alla ratio legis diretta a sostenere la competitività dei capitali.
Infine, si sofferma sul possibile diritto di recesso del socio ex art. 2437/1 lett. g) c.c., in seguito all’introduzione delle azioni a voto plurimo, affermando che lo stesso competa agli azionisti che non abbiano concorso alla deliberazione relativa all’introduzione delle azioni a voto plurimo, laddove essa comporti che azioni già emesse o azioni da emettere in virtù di un aumento di capitale contestualmente deliberato, siano munite del voto plurimo.
Solo tale operazione, infatti, determina, in linea di principio, una effettiva modificazione dello statuto avente ad oggetto direttamente “i diritti di voto”.
L’Autore riflette poi sulla circostanza che, poiché l’art. 2437, primo comma, lett. g) dovrebbe essere diretto ad evitare che al socio di minoranza sia imposta dalla maggioranza assembleare una modifica del peso del voto che ciascun socio può esprimere in assemblea, potrebbe però dirsi (come certa giurisprudenza di merito citata), che si tratti di deliberazioni che hanno direttamente ad oggetto la modificazione dei diritti di voto o di partecipazione dei soci e per la cui adozione, in assenza del rimedio dell’exit, si potrebbe dubitare dell’applicazione del principio maggioritario.
Pertanto, il diritto di recesso non può competere ogni qual volta la delibera sia strutturata in modo tale che ciascun socio sia posto in condizione di non subire siffatta modifica, ovvero quando:
- l’attribuzione del voto plurimo alle azioni già emesse sia effettuata in modo tale da non alterare le maggioranze risultanti dalla situazione preesistente
- le azioni a voto plurimo da emettere siano offerte in opzione a tutti i soci in proporzione alla quota di capitale da essi detenuta, in quanto in tal caso ai soci è data facoltà, esercitando il diritto di opzione, di conservare le maggioranze risultanti dalla situazione preesistente.