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Voto plurimo e nuove strategie societarie

17 Giugno 2022

Marzia Bove, Lener & Partners

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo affronta il tema delle azioni a voto plurimo e della maggiorazione del voto per le società quotate, attraverso l’analisi di alcuni “casi” quali FCA e Campari, che si caratterizzano per la delocalizzazione della sede societaria per beneficiare di diversi istituti di corporate governance.


1. Premessa

Il diritto societario italiano è caratterizzato dall’impossibilità per le società quotate di emettere azioni a voto plurimo. Questa carenza pone il nostro ordinamento in una posizione di asimmetria regolamentare rispetto alle altre legislazioni comunitarie.

Le società di capitali sfruttano il gap normativo per delocalizzare la propria sede verso ordinamenti caratterizzati da regimi societari particolarmente favorevoli sotto il profilo del diritto di voto.

Intervenendo sulla disciplina codicistica e sul Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (TUF), il legislatore italiano ha cercato così di limitare tale fenomeno. Tuttavia, come si avrà modo di vedere nel corso dell’elaborato, tali invertenti non hanno sortito l’effetto sperato.

2. Il decreto Competitività: superato il principio «un’azione, un voto»

Per lungo tempo il principio «un’azione, un voto», sancito nell’art. 2351 c.c., è stato considerato un caposaldo della disciplina societaria italiana[1]. Il principio in questione era espressione della correlazione fra rischio e potere, in base alla quale chi più rischia ha più potere perché in grado di assumere scelte maggiormente ponderate ed orientate ad una migliore gestione della società[2].

Sfruttando il carattere dispositivo di tale regola, il legislatore italiano ha cercato di conformarsi alle esperienze degli altri Stati membri introducendo gradualmente le azioni a voto multiplo[3]. Un primo passo in questa direzione è rappresentato dall’emanazione del decreto Competitività, ossia il d.l. del 24 giugno 2014, n. 91[4]. Difatti, attraverso l’introduzione degli istituti della maggiorazione del voto e delle azioni a voto plurimo, il legislatore italiano ha definitivamente scardinato il vecchio tabù del voto multiplo, colmando quel gap regolamentare esistente con le altre legislazioni nazionali che già prevedevano meccanismi di tal genere.

Sulla reale portata innovativa di tale intervento si rinvengono due linee di pensiero.

Secondo alcuni si tratterebbe di una «mini rivoluzione» poiché si andrebbe a scalfire il rigoroso principio della correlazione tra rischio (rappresentato dalla portata dell’investimento) e potere (capacità di imporsi nell’assunzione delle decisioni) garantito da sempre nel nostro ordinamento dalla regola base che ogni azione attribuisce un diritto di voto[5].

Secondo altri, invece, non si tratterebbe di un intervento inedito: da un lato, si introducono istituti già presenti nelle altre esperienze giuridiche, dall’altro si tratterebbe più che di una rivoluzione di un «ritorno alle origini»[6].

Infatti, il codice di commercio del 1882 se impediva la possibilità di limitare o escludere il diritto di voto (art. 164, comma 1), ammetteva, di converso, la possibilità di emettere azioni a voto plurimo per preservare il controllo di società bisognose di ricapitalizzarsi (in questo senso l’art. 167, comma 1).

Il codice civile del 1942, con un’inversione di marcia rispetto al previgente Codice, ha stabilito il divieto di emettere azioni a voto plurimo consentendo invece la creazione di azioni a voto limitato.

Nel 1974 furono poi introdotte, per le sole società quotate, le «azioni di risparmio», del tutto prive del diritto di voto, rappresentanti chiaramente una deviazione del principio «un’azione un voto» su cui si reggeva l’intero impianto codicistico[7].

È con la riforma del diritto societario del 2003 che si amplia ulteriormente l’autonomia statutaria al fine di rendere conforme il diritto societario nazionale agli ordinamenti concorrenti. In particolare, essa ha introdotto gli strumenti finanziari partecipativi (art. 2346, comma 6, c.c.) attributivi di diritti patrimoniali o amministrativi con esclusione del diritto di votare in assemblea; azioni con diritto di voto subordinati a particolari argomenti o al verificarsi di condizioni non meramente potestative (art. 2351, comma 2, c.c.) e, addirittura, ha previsto la possibilità di emettere azioni del tutto prive del diritto di voto e senza peraltro garantire vantaggi patrimoniali (art. 2351, comma 2, c.c.). Con la precisazione che queste ultime due categorie di azioni, insieme alle azioni a voto limitato, non possono superare la metà del capitale sociale.

Malgrado tale ampliamento, permaneva il divieto di emettere azioni a voto plurimo (art. 2351, comma 4, c.c.)[8].

La ratio della scelta è chiara. Il legislatore temeva che introducendo le azioni a voto plurimo vi sarebbe stata la concentrazione del potere nelle mani di una minoranza ristretta, alterando eccessivamente il principio di proporzionalità.

3. Segue. Le azioni a voto plurimo e la maggiorazione del voto

Il decreto Competitività ha portato avanti l’obiettivo intrapreso con la riforma del 2003, ovvero quello di «ampliare gli strumenti disponibili alle società per attingere a fonti di finanziamento, concedendo ampio spazio alla creatività degli operatori nell’elaborazione di forme adeguate alla situazione di mercato»[9].

Con la conversione in legge del decreto Competitività (d.l. 24 giugno 2014, n. 91 convertito con modificazioni nella l. 11 agosto 2014, n. 116) assumono una veste definitiva le modifiche apportate, sia al codice civile, sia al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF), in tema di diritto di voto nelle società per azioni.

A livello codicistico è stata introdotta la facoltà per le società per azioni non (ancora) quotate di emettere azioni a voto plurimo. Al riguardo l’attuale art. 2351, comma 4, c.c. dispone che «Salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Ciascuna azione a voto plurimo può avere fino a un massimo di tre voti»[10].

Attraverso l’introduzione di questa nuova categoria di azioni si cerca di incoraggiare la crescita delle PMI italiane, per lo più a stampo familiare, garantendo la continuazione della gestione societaria in capo al medesimo soggetto e la promozione di investimenti azionari di lungo periodo. Il gruppo di comando, infatti, riuscirebbe a mantenere e a rafforzare il proprio controllo detenendo una percentuale inferiore di capitale.

L’unico limite previsto è rappresentato dal numero massimo di voti attribuibili a ciascuna azione, fissato a tre. Non sono invece previsti limiti quantitativi, sicché le azioni a voto plurimo potrebbero rappresentare anche più della metà del capitale sociale.

Le modalità attraverso cui queste azioni possono essere emesse sono varie.

In primo luogo, se l’emissione di azioni a voto plurimo avviene al momento della costituzione della società non si pongono particolari problemi poiché tutti gli azionisti ab origine hanno la possibilità di esprimere il proprio consenso[11].

In secondo luogo, la società può stabilire nello statuto una clausola che preveda l’utilizzo futuro di azioni a voto plurimo, programmando il relativo aumento di capitale attraverso una delega della decisione all’organo amministrativo in base all’art. 2443 c.c. In questo caso, non è riconosciuto il diritto di recesso ai soci dissenzienti, in quanto essi hanno già prestato il loro consenso in sede di sottoscrizione dell’atto costitutivo[12].

In terzo luogo, la società può emettere azioni a voto plurimo mediante una modifica statutaria[13].

Il secondo livello su cui è intervenuto il decreto Competitività riguarda, come anticipato, la modifica al d.lgs. n. 58/98 (TUF) concretizzatosi nell’inserimento di due nuovi articoli: l’art. 127 sexies e l’art. 127-quinquies.

L’art. 127 sexies, comma 2, TUF, prevede che «le azioni a voto plurimo emesse anteriormente all’inizio delle negoziazioni in un mercato regolamentato mantengono le loro caratteristiche e diritti».

Sono evidenti i vantaggi che tale disposizione attribuisce ai titolari di azioni a voto plurimo emesse ante quotazione: le azioni a voto plurimo non sono emettibili dalle società quotate; esse attribuiscono tre voti rispetto ai due voti delle azioni a voto maggiorato e, infine, sono svincolate dal periodo di possesso minimo di ventiquattro mesi richiesto per queste ultime[14].

L’art. 127-quinquies, invece, consente alle società quotate o quotande di inserire nei propri statuti il c.d. voto maggiorato[15].

La maggiorazione del voto non rappresenta, come le azioni a voto plurimo, una categoria azionaria. Essa, piuttosto, consiste in una mera modifica della regola di attribuzione del diritto di voto volta a premiare, con parità di trattamento, gli azionisti «fedeli»[16].

A venire in rilievo, dunque, non è tanto l’azione in sé, quanto la situazione personale dell’azionista, dal momento che tali azioni spettano a chiunque sia titolare di un’azione per un periodo ininterrotto di 24 mesi e il cui trasferimento determina l’estinzione del beneficio maggioritario.

In tal caso, la soglia massima della maggiorazione è pari a due voti.

Da una serie di disposizioni è possibile cogliere il favor espresso nei confronti del voto maggiorato: il quorum deliberativo per l’approvazione è stato ridotto dai due terzi alla semplice maggioranza del capitale (art. 20, comma 1 bis, d.l. n. 91); non è previsto il diritto di recesso per i soci dissenzienti (art. 127 quinquies, comma 6, TUF)[17].

La maggiorazione del voto è stata pensata come uno strumento per incentivare, attraverso la formazione di una classe di azionisti durevoli, investimenti a lungo termine e arginare scalate ostili mediante un effettivo potere di monitoring di cui tali investimenti sono dotati.

Tuttavia, contrariamente all’intenzione del legislatore, si è verificato una sorta di effetto boomerang. Infatti, nonostante la maggiorazione del voto sia un beneficio concesso a tutti gli azionisti, ad uscirne rafforzati sono gli azionisti di controllo che riescono a mantenere un’influenza dominante «con la metà dello sforzo»[18].

Si può pertanto concludere che il decreto Competitività ha definitivamente scardinato il vecchio tabù del voto multiplo intaccando il principio di proporzionalità «un’azione un voto» presente nel diritto societario italiano.

Un passaggio ritenuto necessario al fine di frenare fenomeni di forum shopping giuridico da parte delle società italiane, nonché per eliminare il divario regolamentare esistente con le altre legislazioni nazionali.

In questo caso, si ritiene che tale divario normativo abbia condotto alla c.d. race to the top, in quanto ha spinto il legislatore italiano a modernizzare il diritto societario adeguandosi alle regole maggiormente apprezzate dalle imprese[19].

Non manca, tuttavia, chi sottolinea l’altra faccia della medaglia dell’intervento legislativo evidenziando come l’introduzione delle azioni a voto multiplo possa dar luogo alla codificazione di un altro principio, «comandare molto investendo poco», incoraggiando comportamenti poco virtuosi, come l’estrazione di benefici privati del controllo[20].

4. Il caso FCA come modello di mobilità societaria

L’emanazione del decreto Competitività è dipesa dalla necessità di far fronte a particolari fenomeni che si sono verificati nel corso degli anni. Primo fra tutti la «fuga» di importanti gruppi societari verso legislazioni ritenute così vantaggiose da spingere le società, rectius i soci di maggioranza, a delocalizzare la propria sede sociale[21].

Non è un caso, dunque, che il legislatore abbia scelto di intaccare il principio «un’azione, un voto» proprio a seguito di un’operazione di mobilità cross-border realizzata da una società italiana: la fusione per incorporazione di Fiat S.p.A. nella controllata olandese Fiat Investment N.V.[22].

Coinvolgendo la Fiat S.p.A., quale società per azioni italiana, e Fiat Investments N.V., quale società per azioni di diritto olandese, l’operazione è un chiaro esempio di fusione transfrontaliera realizzata sulla base della Direttiva 2005/56 CE e attuata, sul piano interno, attraverso il Titolo 2.7 del Codice civile olandese e il d.lgs. n. 108/2008.

L’operazione in questione ha suscitato grande rilievo non solo dal punto di vista economico e giuridico, ma anche storico: una delle più grandi industrie, espressione del Made in Italy, decideva di svolgere altrove la propria attività produttiva.

Quando la crisi economico-finanziaria del 2008 iniziò a diffondersi tra i vari settori produttivi, il settore automobilistico non ne venne risparmiato.

Pertanto, per cercare di risollevare le sorti di un’economia già fortemente segnata, nel 2009 venne stipulata un’alleanza strategica attraverso la quale Fiat acquisì la prima quota partecipativa nel capitale sociale di Chrysler LLC, un gruppo industriale statunitense, dando inizio a quello che è stato definito il «nuovo secolo»[23].

Tale alleanza rappresentava una combinazione ideale, tanto per la ristrutturazione aziendale di Chrysler LLC, quanto per un futuro maggiormente prospero per il Gruppo Fiat[24].
Successivamente il gruppo Fiat aumentò progressivamente la propria partecipazione nel capitale di Chrysler e nel 2012 essa riuscì ad acquisire il 58,5% del capitale ottenendone il pieno controllo[25], per poi acquisire la rimanente quota del capitale della società statunitense.

Dal momento che la parte più considerevole del profitto del gruppo Fiat proveniva dalle vendite oltreoceano, si iniziò ad avvertire l’esigenza di una ristrutturazione organizzativa e finanziaria di una società che, nonostante il carattere internazionale del proprio business, era rimasta interamente italiana[26].

Fu così che il 1° aprile 2014 venne costituita ad opera della stessa Fiat S.p.A. una società per azioni di diritto olandese, costituita ad hoc proprio in vista della fusione: Fiat Investments N.V.

Pochi mesi dopo, infatti, l’esigenza di ristrutturazione venne soddisfatta utilizzando un modello già sperimentato in passato dal gruppo Fiat: la citata fusione per incorporazione di Fiat S.p.A. nella controllata Fiat Investments N.V, dando luogo a Fiat Chrysler Automobiles (FCA) N.V.[27].

La società olandese post-fusione divenne la nuova holding del gruppo.

Si realizzava così un’operazione di trasferimento intracomunitario della sede legale, trasferita in Olanda, e della sede fiscale, trasferita in Inghilterra, accompagnata dal mutamento di legge applicabile (diritto olandese) al fine di beneficiare di un regime giuridico e fiscale più favorevole di quello italiano.

Appare evidente che la scelta dei Paesi di destinazione è stata tutt’altro che casuale, in quanto, almeno per ciò che attiene l’Olanda, è stata soprattutto la presenza di una corporate governance particolarmente appetibile per gli azionisti e gli investitori ad essere stata decisiva ai fini della scelta del trasferimento della sede.

Inoltre, non possiamo trascurare un ulteriore scelta che, ancora una volta, ha posto i vari ordinamenti in concorrenza tra loro: la quotazione di FCA alla Borsa di New York (New York Stock Exchange, NYSE)[28].

Il fatto di trasferire la quotazione primaria al NYSE, mantenendo quella secondaria al MTA di Borsa Italiana non è stato, come ormai ci si può aspettare, un mero caso fortuito.

L’operatività di una parte del gruppo negli Stati Uniti, unita alla presenza della maggior parte delle principali società automobilistiche in Nord America, le cui azioni sono appunto quotate nella Borsa di New York, consente di aumentare la liquidità delle azioni, nonché la capacità di accedere ad uno spettro più ampio di fonti di finanziamento.

Naturalmente la scelta di spostare la quotazione alla NYSE è strettamente collegata alla collocazione della sede legale in Olanda in virtù della «well established, investor-friendly corporate form» che l’ordinamento olandese consente di adottare[29].

Nel prossimo paragrafo verranno analizzati i motivi specifici posti alla base della decisione del trasferimento della sede, decisione che è parte della più ampia scelta di realizzare un’operazione di fusione intracomunitaria.

5. Segue. Le azioni a voto speciale

Nonostante sia passato qualche anno tra la realizzazione dell’operazione di fusione di Fiat S.p.A. in FCA N.V e la più recente operazione di trasformazione transfrontaliera di Campari S.p.A. in Campari N.V.[30], possiamo rinvenire un filo conduttore nella scelta di entrambe le società italiane di essere regolate dal diritto di un altro Stato, ovvero dal diritto olandese.

Entrambe le società sono passate dall’essere società per azioni di diritto italiano ad assumere la forma societaria della Naamloze vennootschap (N.V), la corrispondente società per azioni di diritto olandese.

Le ragioni sottese a tali scelte sono per lo più di carattere giuridico, nonché di politica economica e finiscono per rendere l’Olanda un vero e proprio «paradiso» per le holding, caratterizzata da un’economia stabile e affermata e la presenza di una politica di investimenti tra le più aperte al mondo. Senza tralasciare la presenza di un sistema societario tra i più flessibili in Europa[31].

È soprattutto tale aspetto ad emergere dalle motivazioni presentate da entrambe le società italiane nel realizzare le rispettive operazioni.

Infatti, uno dei motivi fondamentali che hanno spinto il gruppo Fiat e il gruppo Campari ad optare per il trasferimento della sede in Olanda è proprio la possibilità di beneficiare di azioni a voto multiplo attraverso meccanismi di voto in grado di premiare con maggior efficacia gli azionisti stabili. Nello specifico, le azioni a voto speciale (special voting shares) sono, per il diritto olandese, una vera e propria classe di azioni, a differenza delle azioni a voto maggiorato italiane ex articolo 127-quinquies del TUF, non ritenute classificabili come tali.

Il meccanismo del voto multiplo consente la creazione di un gruppo stabile di azionisti di riferimento e promuove l’ingresso di soci interessati ad una partecipazione di lungo periodo[32].

In altri termini, si verrebbe a creare una solida base azionaria idonea a supportare strategie di crescita a lungo termine, essenziali nell’ambito di una prospettiva di sviluppo dei gruppi societari.

Effettivamente questa stabilità degli assetti proprietari consentirebbe al Gruppo Fiat di affermarsi e imporsi come player globale e supporterebbe il Gruppo Campari nel processo di progressivo consolidamento nell’industria dei global spirit, in cui la società svolge un ruolo di primario rilievo.

Per quanto riguarda il Gruppo Campari, lo statuto di Davide Campari-Milano N.V prevede la possibilità di attribuire agli azionisti loyal tre classi di azioni a voto speciale[33].

Le azioni a voto speciale A attribuiscono 2 voti per ciascuna Azione Ordinaria detenuta per un periodo ininterrotto di 2 anni.

Le azioni a voto speciale B, invece, attribuiscono 5 voti per ciascuna azione ordinaria detenuta per un periodo ininterrotto di 5 anni.

Le azioni a voto speciale C attribuiscono 10 voti per ciascuna azione ordinaria detenuta per un periodo ininterrotto di 10 anni.

Gli azionisti che vogliano ricevere queste special voting shares dovranno inviare un modulo di richiesta al fine di iscrivere le proprie azioni ordinarie in un apposito registro (il Registro Loyalty). Tali azioni diventano così azioni ordinarie legittimate.

In particolare, a seguito dell’efficacia dell’operazione di trasformazione, gli azionisti che avranno detenuto ininterrottamente per due anni un’azione ordinaria Campari, con registrazione nel relativo Registro loyalty, avranno diritto a due voti per azione.

Dopo i successivi tre anni, avranno diritto di esercitare cinque diritti di voto che finirebbero per ammontare a dieci qualora ci sia una detenzione ininterrotta di ulteriori cinque anni della medesima azione.

Il fatto che un’azionista sia già titolare del voto maggiorato ai sensi della legge italiana non rappresenta una preclusione a partecipare al meccanismo delle azioni a voto speciale previsto nel nuovo statuto olandese.

Per quanto riguarda le azioni del gruppo FCA, invece, a seguito dell’efficacia della fusione, FCA emetterà azioni ordinarie, ciascuna da assegnare agli azionisti di Fiat in cambio delle azioni ordinarie di Fiat.

Ai sensi dello statuto di FCA, tali azioni non avranno diritto alle distribuzioni né saranno fornite del diritto di voto fintantoché saranno azioni proprie di FCA. Esse, come in precedenza esposto, saranno quotate sul NYSE e, successivamente, sul mercato telematico azionario.

Per quanto riguarda le loyalty shares, si prevedono due modalità di attribuzione[34].

FCA emette azioni a voto speciale a favore degli azionisti Fiat che abbiano richiesto di ricevere tali azioni(speciali) in aggiunta alle Azioni Ordinarie FCA e che abbiano rispettato determinati requisiti, tra i quali: la partecipazione all’assemblea straordinaria di Fiat; la detenzione ininterrotta di azioni ordinarie di Fiat fino al momento di efficacia della fusione con la relativa dichiarazione che attesti tale detenzione.

Le azioni ordinarie FCA cui sono assegnate azioni a voto speciale, le c.d. azioni legittimate, vengono inserite in un loyalty register (Registro «speciale»).

Una seconda modalità che consente di ricevere i «voti fedeltà» è rappresentata dall’iscrizione, stavolta da parte degli azionisti FCA, delle azioni ordinarie FCA nel loyalty register. Ogni azione ordinaria FCA iscritta in tale registro da parte dello stesso titolare per un periodo continuo di tre anni diventerà un’azione legittimata e il detentore avrà diritto ad ottenere un’azione a voto speciale per ognuna di tali azioni.

Da un’attenta analisi si evince che la prima modalità è riservata agli azionisti Fiat, la seconda agli azionisti FCA.

In questo modo, la società Exor, azionista di controllo della Fiat, è riuscita a mantenere la propria posizione anche all’interno della nuova holding olandese. Infatti, essa ha detenuto una percentuale di voti in FCA tra il 30, 5% al 46%.

È evidente che attraverso il loyalty voting mechanism il socio di riferimento, senza aumentare la percentuale detenuta, riesce a mantenere e, addirittura, a rafforzare il controllo della società.

Possiamo dunque definire le loyalty shares come uno strumento di miglioramento del controllo (Control Enhancing Mechanisms, CEMs) particolarmente appetibile tanto da spingere le nostre società ad abbandonare la loro presenza storica sul territorio nazionale ed «emigrare» altrove per poterne usufruire[35].

Siffatto miglioramento del controllo consente, nei rapporti esterni, di difendersi nei confronti di scalate ostili; nei rapporti interni di migliorare il rapporto tra l’azionariato stabile e i manager, in quanto entrambi saranno orientati verso investimenti a lungo termine, lasciando poco margine a manovre opportunistiche e ad investitori di breve periodo[36].

Naturalmente non si può trascurare la presenza di altri fattori, quali un fisco praticamente assente e una burocrazia celere, che hanno reso l’ordinamento olandese una meta particolarmente appetibile, tanto da preferirlo rispetto ad altri ordinamenti europei, come la Francia, in possesso dei suoi medesimi CEMs, e con una maggior tradizione nell’utilizzo di loyalty voting mechanism[37].

6. Il decreto Rilancio e il problema del voto plurimo

L’analisi dei casi appena esposti, nonché le scelte analoghe di altri gruppi societari italiani, quali Ferrari e Mediaset, mette in evidenza il fallimento dell’aspettativa sottesa all’emanazione del decreto Competitività: frenare l’evasione delle società italiane all’estero[38].

La tattica utilizzata, come già anticipato, è sempre la stessa: adottare la forma giuridica Naamloze Vennootschap (N. V.), società pubblica olandese corrispondente alla S.p.A. di diritto italiano, con successiva fissazione della sede legale in Olanda al fine di beneficiare del meccanismo del voto plurimo previsto dal diritto olandese[39].

Quindi, il legislatore è nuovamente intervenuto portando al ritorno in auge del voto plurimo.

Nella bozza del c.d. decreto Rilancio (d.l. 19 maggio 2020, n. 39), emanato per far fronte alle problematiche connesse all’emergenza Covid-19, l’art. 45 estende alle società quotate la possibilità di emettere azioni a voto plurimo, derogando così al divieto espressamente previsto dall’art. 127 sexies, comma 1, TUF[40].

In tale contesto, le azioni a voto plurimo acquisiscono importanza per almeno due motivi.

In primo luogo, come già sottolineato, tali azioni, conferendo al titolare un numero maggiore di voti in assemblea, rafforzano la stabilità del controllo societario e, dunque, incoraggiano una gestione «virtuosa della società verso investimenti a lungo termine».

Tale circostanza è ancora più avvertita nel mercato italiano, caratterizzato da soci detentori di pacchetti azionari rilevanti e legati principalmente da vincoli familiari.

Inoltre, nella misura in cui fungono da strumento contro le scalate ostili, vengono altresì preferite al diverso meccanismo del golden power.

Il secondo aspetto che merita di essere sottolineato è quello legato all’aspetto concorrenziale.

Il voto plurimo rappresenta ormai una costante nel diritto societario di molti paesi europei, quali l’Olanda, l’Inghilterra, i Paesi Scandinavi, nonché Americani, ivi sfruttato dalle società operanti nel settore dei media (New York times, Washington Post) e dei big dell’high tech (Facebook)[41].

Pertanto, l’Italia, estendendo il voto plurimo anche agli emittenti quotati, ha cercato di emulare gli altri ordinamenti, in primis quello che viene definito il «nemico» olandese, al fine di livellare le differenze di disciplina esistenti e raggiungere finalmente il c.d. level playing field in materia[42].

V’è chi in dottrina ha rilevato la sensazione che le società italiane siano state quasi vittime di una «rapina» da parte dei concorrenti olandesi, come se esse fossero state costrette ad abbandonare l’Italia per spostarsi altrove[43].

L’importanza di tali vantaggi ha indotto il legislatore «a lasciare all’autonomia statutaria e alle valutazioni del mercato la possibilità di emettere azioni a voto plurimo anche da parte di società italiane con azioni quotate nei mercati regolamentati»[44].

La ratio di quest’ultimo intervento era quella di risollevare il mercato borsistico italiano per concorrere, su un piano di parità, con le altre giurisdizioni nazionali.

Tuttavia, nonostante le migliori intenzioni, l’art. 45 è stato eliminato dalla versione definitiva del decreto Rilancio, approvata il 19 maggio 2020, sacrificando nuovamente le speranze di veder introdotto un efficace strumento di rafforzamento della governance nel diritto societario italiano[45].

Tale conclusione non ha sicuramente scontentato gli investitori istituzionali, fortemente contrari all’introduzione del voto multiplo in Borsa, poiché tale meccanismo avrebbe stabilizzato e, nella peggiore ipotesi, «ingessato» il mercato italiano[46].

Sulla stessa linea si è posto il Presidente della Consob, il quale ha invitato il governo ad una più attenta analisi dell’istituto, bilanciando i pro e i contro che esso produrrebbe sull’intero sistema italiano. Sotto quest’ultimo aspetto, conseguenze negative potrebbero prospettarsi per le minoranze assembleari.

Proprio per arginare tali rischi, il legislatore ha previsto un serie di strumenti di tutela[47].

In primo luogo, particolarmente efficace è il sistema del c.d. whitewash, in base al quale la delibera di aumento del capitale sociale con emissione di azioni a voto multiplo è subordinata all’approvazione della maggioranza dei soci di minoranza, purché presenti in assemblea con almeno il 10% del capitale.

Così facendo viene introdotta una sorta di autorizzazione rimessa ai c.d. indipendent shareholders al fine di neutralizzare il voto degli azionisti di riferimento.

I soci che non hanno concorso alla deliberazione godono del diritto di recesso ex art. 2437 c.c.

In aggiunta, ove presenti, è richiesta altresì l’approvazione della proposta da parte delle assemblee speciali dei titolati di particolari categorie di azioni o di altri strumenti finanziari azionari dotati di diritti amministrativi.

Queste previsioni, se da un lato cercano di garantire un equilibrio tra il potenziamento del voto e i soci di minoranza, dall’altro hanno l’effetto di creare uno strumento di difficile realizzazione.

Probabilmente queste difficoltà hanno indotto il governo a cambiare linea sull’introduzione dell’art. 45 nel decreto.

In una prospettiva de iure condendo, qualora il meccanismo del voto plurimo venisse esteso agli emittenti quotati, si porrà l’esigenza di un suo coordinamento con la maggiorazione del voto al fine di evitare eventuali sovrapposizioni.

Una ipotesi, ad esempio, potrebbe essere quella di prevedere una limitazione del numero di azioni suscettibili di maggiorazione. In tal modo, le azioni a voto maggiorato diventerebbero strumenti a tutela delle «minoranze qualificate», contrapponendosi alle azioni a voto plurimo, prerogativa degli azionisti di riferimento.

Si porrebbe altresì l’esigenza di adeguare il nostro ordinamento, attraverso un’apposita disposizione, alla Direttiva 2004/25/CE che prevede la sterilizzazione dei diritti di voto plurimi in caso di OPA[48].

Concludendo, sul piano interno, qualora si opti in maniera definitiva per la liberalizzazione del voto multiplo, sarà necessaria un’analisi puntuale dell’istituto, tenendo a mente le caratteristiche del mercato e delle imprese italiane e le conseguenze che esso può comportare sull’assetto esistente.

Infatti, un’adesione cieca alle soluzioni straniere, senza prendere in considerazione i caratteri reali del sistema italiano, porterebbe facilmente alle pericolose derive di una corsa al ribasso, di una race to the bottom.

Sul piano esterno, si può osservare come il voto multiplo sia stato contemporaneamente causa e conseguenza della concorrenza, estendendo la portata di quel principio alla cui importanza abbiamo già fatto cenno: la libertà contrattuale.

La concorrenza ha dunque offerto spunti per uno sviluppo e ammodernamento dei sistemi normativi, portando così verso la c.d. race to the top, cioè verso regole maggiormente efficienti.

7. Politiche legislative europee a confronto

Sulla base di quanto esposto non si può dunque dubitare dell’esistenza di una regularoy competition europea.

Appare ora utile chiarire, in primo luogo, di che tipo di concorrenza si tratta e, in secondo luogo, qual è la sua effettiva direzione.

Il fatto che gli Stati membri si impegnino in riforme societarie, ricalcando le innovazioni reciproche, pone sicuramente gli Stati in competizione. Una competizione che, però, non è volta ad attrarre le re-incorporazioni, quanto piuttosto ad evitare la fuga delle proprie società nazionali[49].

Si tratta, perciò, di una concorrenza «difensiva», in quanto gli Stati sono preoccupati per la competitività delle proprie società nazionali rispetto a quelle estere[50].

Questa concorrenza ha agevolato la convergenza di alcune regole societarie. Un esempio è, per l’appunto, l’adozione del voto multiplo e maggiorato adottato dal decreto competitività, come reazione al trasferimento della sede legale della Fiat S.p.A.

Tale circostanza rende altresì evidente il legame esistente tra concorrenza e armonizzazione.

Tali fenomeni non si escludono, ma al contrario possono stimolarsi a vicenda. In questo modo si cerca di uscire dalla rigida alternativa tra concorrenza o armonizzazione[51].

Infatti, una assoluta diversità tra ordinamenti renderebbe impossibile la concorrenza; una eccessiva uniformità non darebbe luogo a vantaggi competitivi, diminuendo le opportunità di ammodernamento e di sviluppo economico[52].

Di conseguenza, una completa uniformità non è solo irraggiungibile, ma nemmeno auspicabile per la realizzazione di una vera integrazione europea.

Sul piano dell’armonizzazione sarà così preferibile usare disposizioni uniformi, anziché prescrizioni dirette, al fine di «riflettere le diverse tradizioni di corporate governance, anziché tentare di eliminarne le differenze»[53].

Per ciò che attiene l’effettiva direzione della concorrenza meritano menzione le teorie elaborate dagli studiosi statunitensi: la teoria della race to the bottom (o teoria della «corsa al ribasso») e la teoria della race to the top.

In base alla teoria della race to the bottom, la concorrenza spingerebbe verso standard di diritto societario meno efficienti e più lassisti. In particolare, essa indurrebbe gli Stati a adottare regole societarie troppo permissive per i dirigenti, a danno degli azionisti[54].

I sostenitori di questa teoria erano per lo più i federalisti americani, i quali ritenevano che una regolamentazione federale, anziché statale, degli affari interni consentirebbe di proteggere gli azionisti dallo sfruttamento dei dirigenti[55].

Come tutte le teorie, anche la teoria della race to the bottom non è universalmente accettata.

I critici sottolineano come essa non prenda in considerazione le forze di mercato in grado di incidere sul comportamento opportunistico dei manager[56].

Inoltre, essa assume che i soci non siano in grado di tutelarsi in maniera autonoma, trascurando il fatto che la società vincola contrattualmente gli azionisti[57].

Diversamente, la teoria della race to the top si basa sull’assunto che la concorrenza statale avvantaggi gli azionisti poiché spingerebbe gli Stati a adottare regole societarie che migliorano il loro valore. Questa teoria ha messo in luce l’incidenza della disciplina di mercato sulle decisioni manageriali; tuttavia, non sempre ciò è sufficiente per scoraggiare l’adozione di determinate regole[58].

Non è un caso che tali contributi provengano al di là dell’Atlantico, in quando gli Stati Uniti rappresentano il simbolo della competizione tra ordinamenti societari.

Dapprima il New Jersey con un programma di liberalizzazione, successivamente il Delaware con una disciplina aperta al risparmio del pubblico degli investitori, sono divenuti polo attrattivo di un numero considerevole di società.

Proprio per sottolineare il ruolo di calamita assunto da quest’ultimo Stato si parla di «Delaware effect». Esso, infatti, è Stato di incorporazione per oltre la metà delle società quotate e delle aziende Fortune 500[59].

Trasponendo quanto detto a livello europeo possiamo notare l’assenza di un «Delaware europeo», nonché la mancanza di omogeneità del diritto societario, rinvenendosi piuttosto una pluralità di modelli alternativi di corporate governance[60].

Sicché la competizione comunitaria difficilmente può essere ricondotta alle due posizioni estreme della race to the top o race to the bottom elaborate dagli studiosi statunitensi.

Considerate le circostanze dell’Unione, le peculiarità dei diritti nazionali nonché i diversi valori fondamentali su cui essi si fondano, si potrebbe affermare che il modello concorrenziale europeo esuli dalla corsa al vertice o al ribasso, basandosi invece sulla contemporanea esistenza di entrambe[61].

Qualora una società decida di spostarsi verso uno Stato membro che abbia allentato i propri standard normativi, lo Stato di incorporazione può reagire in diversi modi: può imporre restrizioni «all’uscita»; può adeguarsi allo Stato avversario deteriorando anch’egli i propri standard normativi o, al contrario, modernizzare il proprio diritto per renderlo più appetibile[62].

Pertanto, soltanto l’equilibrio garantito dal binomio innovazione-deterioramento può realizzare un ambiente concorrenziale stabile, sostenibile e, inevitabilmente, duraturo.

8. Conclusioni

L’analisi dei motivi che animano le operazioni di mobilità cross-border ha reso evidente che la scelta delle società di «emigrare» fuori dai confini nazionali è strettamente collegata anche al sistema di voto adottato nel diritto societario italiano, nonché ai limiti connessi al suo esercizio.

La presenza nel nostro ordinamento dei principali Control Enhancing Mechanism, quali i gruppi piramidali, i patti parasociali, nonché le azioni senza diritto di voto, non è stata sufficiente a frenare l’interesse delle società italiane a trasferire la sede all’estero per avvalersi di un regime giuridico favorevole alla previsione, diretta o indiretta, di azioni a voto plurimo.

Ponendosi in ottica difensiva, il legislatore italiano ha cercato invano di colmare questa lacuna mediante i due interventi citati nel corso della trattazione, il decreto Competitività e il decreto Rilancio.

Difatti, tuttora l’ordinamento giuridico italiano, in forza del combinato disposto dell’articolo 2351 del c.c. e dell’articolo 127-sexies del TUF, vieta alle società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati l’emissione di azioni a voto plurimo, se non nella peculiare forma delle azioni a voto maggiorato (c.d. loyalty shares), ai sensi dell’articolo 127-quinquies del TUF, per le quali la maggiorazione del diritto voto dipende dal possesso continuativo delle azioni da parte del medesimo soggetto per almeno ventiquattro mesi.

Al fine di giungere ad una armonizzazione normativa europea anche sotto il profilo del diritto societario si auspica un intervento normativo volto a conformare l’ordinamento italiano alle altre legislazioni e prevenire che tale situazione di asimmetria regolamentare produca effetti negativi per l’economia nazionale e il mercato borsistico italiano.

 

[1] L’art. 2351 c.c., nella sua nuova formulazione, stabilisce il principio «un’azione-un voto» quale regola dispositiva del diritto azionario (1° co.); ammette deviazioni in negativo da tale regola (2° co.); vieta deviazioni in positivo (4° co.); limita quantitativamente tali deviazioni alla metà del capitale sociale (2° co.); ammette per le società chiuse (e quindi vieta alle società aperte) clausole di limitazione quantitativa al diritto di voto e di scaglionamento (c.d. voting cap e voto scalare). In tal senso, Zanoni, sub art. 2351, in Fauceglia, Schiano di Pepe (diretto da), Codice commentato delle S.P.A., I, Torino, 2007, p. 204.

[2] M. Spolidoro, Il voto plurimo: i sistemi europei, in Riv. Soc., p. 138.

In dottrina non manca chi sottolinea che la teoria generale del diritto ha ormai abbandonato la rigida dicotomia proprietà-controllo per lasciare spazio ad un principio di rango superiore, l’autonomia statutaria. In tal modo, la società per azioni diventerebbe una sorta di Nexus of contract. Così G. Rossi, Competizione regolamentare e contrattualizzazione del diritto societario, in Riv. Soc., 2016, p. 3.

[3] Se alcuni sottolineano i vantaggi che tali azioni possono comportare, dall’altro non v’è chi non veda gli svantaggi legati alla loro emissione. Tra gli svantaggi collegati alla sproporzione tra azioni e voti e, di conseguenza, alla possibilità di emettere azioni a voto multiplo si sottolinea la difficoltà di lanciare un’offerta pubblica di acquisto per ottenere il controllo della società. Così facendo, da un lato si perderebbe l’opportunità di far acquistare la società da parte di chi pensa di poterla gestire e valorizzare al meglio; dall’altro il management della società target sarà incentivato ad essere sempre meno efficiente. M. Lamandini, Voto plurimo, tutela delle minoranze e offerta di pubblico acquisto, Relazione al XXVIII Convegno di studio su “Unione Europea: concorrenza tra imprese e concorrenza tra Stati”, Courmayeur, 19-20 settembre 2014.

[4] Decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91 contenente disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea. (GU Serie Generale n.144 del 24-06-2014).

[5] A. Busani – M. Sagliocca, Le azioni non si contano, ma si “pesano”: superato il principio one share one vote con l’introduzione delle azioni a voto plurimo e a voto maggiorato, in Società, n.10, 2014, p. 1048.

[6] N. Ambriani, Azioni a voto plurimo e maggiorazione del diritto di voto degli azionisti fedeli: nuovi scenari e inediti problemi interpretativi. Approfondimento del 29 settembre 2014, in Giustizia.Com., 2014, 4; A. Angelici, Voto maggiorato, voto plurimo e modifiche dell’OPA, in Giur. Comm., 2015, p. 216.

[7] Art. 14, decreto-legge, 8 aprile 1974, n.95, convertito in legge 7 giugno 1974, n. 216. Successivamente abrogato dal Testo Unico della Finanza (d.lgs. 24 febbraio 1998, 58), il cui art. 145 dispone che «Le società italiane con azioni ordinarie quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione Europea possono emettere azioni prive del diritto di voto, dotate di particolari privilegi di natura patrimoniale»

[8] In questo modo, il principio della correlazione tra potere e rischio ne usciva ridimensionato, ma non completamente annullato. Il potere di voto poteva si essere inferiore al rischio (come nelle azioni senza voto), ma non poteva mai essere superiore (come nelle azioni a voto plurimo). M. Bione, Il principio della corrispondenza tra potere e rischio e le azioni a voto plurimo: noterelle sul tema, in Giur. comm., 2015, p. 268.

[9] Relazione al d.lgs. n. 6 del 2003.

[10] Si fa riferimento a condizioni, tanto sospensive quanto risolutive, idonee a concretizzarsi in eventi futuri, indipendenti dalla volontà della società, specificatamente indicati nello statuto. N. Ambriani, Azioni a voto plurimo e maggiorazione del diritto di voto degli azionisti fedeli: nuovi scenari e inediti problemi interpretativi, in Giustizia.Com., 2014, p. 8.

[11] A. Busani – M. Sagliocca, op. cit., p. 1053.

[12] Ibid.

[13] In questo caso, la società, andando a modificare lo statuto in materia di diritti di voto, dovrà: i) assumere tale deliberazione con le maggioranze rafforzate prescritte per l’assemblea straordinaria dagli artt. 2368 e 2369 c.c.; ii) consentire ai soci, che non hanno concorso alla deliberazione, di recedere dalla società in relazione a tutte o solo a una parte delle azioni possedute (art. 2347- bis, lett. g, c.c.). La ratio del quorum rafforzato previsto al punto i) è quello di tutelare le minoranze a fronte di possibili abusi degli azionisti di controllo. È stato adeguatamente sottolineato come tale quorum, da un lato, non coinvolge le società aperte non quotate (per le quali esso è previsto per tutte le deliberazioni da assumersi in sede straordinaria) e, dall’altro, non ha un effetto determinante nelle S.p.A. chiuse poiché dal momento che tale quorum riguarda soltanto la prima convocazione, può essere sterilizzato facilmente dai soci di maggioranza. N. Ambriani, op. cit., p. 15.

[14] Non è mancato chi ha sottolineato come il discrimine ante e post quotazione possa dar luogo a spunti di anomalia. Una società «chiusa» potrebbe organizzare l’introduzione delle azioni a voto plurimo «ad arte», e cioè per consentire il mantenimento del potere decisionale dei soci beneficiati dal voto plurimo anche post quotazione, in un contesto nel quale, per principio, il voto plurimo non sarebbe introducibile ex novo. A. Busani – M. Sagliocca, op.cit., p. 1060.

[15] L’art. 127 quinquies, comma 1, TUF, dispone che «Gli statuti possono disporre che sia attribuito voto maggiorato, fino a un massimo di due voti, per ciascuna azione appartenuta al medesimo soggetto per un periodo continuativo non inferiore a ventiquattro mesi a decorrere dalla data di iscrizione nell’elenco previsto dal comma 2».

[16] M. Sagliocca, Azioni a voto plurimo nelle società quotate: occasione persa o soltanto rimandata?, in Società, N.7, 2020, p. 792.

[17] N. Ambriani, op. cit., p. 16.

[18] M. Sagliocca, op. cit., p. 794. Nello stesso senso anche M. Lamandini, op. cit., p. 3 il quale sottolinea la trascurabilità delle differenze funzionali tra voto plurimo e voto maggiorato, affermando che entrambe possono avere l’effetto di consolidare la posizione del gruppo di comando.

[19] P. Montalenti, op. cit., p. 3.

[20] G. Negri, La difficile partita del voto multiplo, in Il sole 24 ore.

[21] Sul punto si veda A. Righini, Il trasferimento transnazionale della sede sociale, in Contr. impr., 2006, p. 755; G. Samorì, Questioni sostanziali e processuali connesse al trasferimento della sede sociale di società di capitali all’estero, in Studi Urbinati di scienze giuridiche, politiche ed economiche, 2017, p. 551; R. Torino, Diritto di stabilimento delle società e trasferimento transnazionale della sede. Profili di diritto europeo e italiano, in Aspetti di interesse notarile nel diritto dell’Unione europea, 2012, p. 153; A. Guaccero, Libertà di stabilimento e diritto societario degli Stati membri: Europa vs. Usa, in Eur. Dir. priv., 2007, p. 133; G. Portale, “Armonizzazione” e “concorrenza” tra ordinamenti nel diritto societario europeo, in Corr. giur., 2003, p. 96.

Un’attenta dottrina sottolinea una specifica ragione posta alla base di queste operazioni di mobilità societaria, osservando che esse «siano tutt’altro che estranee alla cultura ed alle esigenze dei gruppi multinazionali, e che anzi di recente, esse siano state seriamente prese in considerazione proprio al fine di sottrarre società di diritto italiano alla ‘presa’ di nuove disposizioni introdotte dalla legge di riforma e ritenute pericolose, soprattutto per la loro ambiguità, come quelle in tema di direzione e coordinamento di società di cui agli artt. 2497 ss.» M.V. Benedettelli, «Mercato» comunitario delle regole e riforma del diritto societario, in Riv. soc., 2003, p. 721.

[22] F. Pernazza, La mobilità delle società in Europa da Daily Mail a Fiat Chrysler automobiles, in Riv. del Comm. Internaz., N.2, 2015, 450; P. Marchetti, Le fusioni transfrontaliere del gruppo Fiat-Chrysler, in Riv. soc., 2014, p. 1124.

[23] P. Bricco, Il nuovo “secolo” fra Torino e Detroit, in Il sole 24 Ore, 30 gennaio 2014.

[24] Nello stesso anno Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, assunse la stessa carica anche in Chrysler, dando luogo al fenomeno del c.d. interlocking directore il quale indica il legame tra due imprese che si instaura nel momento in cui l’amministratore di una società siede nel consiglio di amministrazione di un’altra. Sergio Marchionne, in Annual Report Fiat Group, 2009.

[25] Si trattava di un tipico caso di controllo di «diritto». In base all’art. 2359 c.c. il controllo societario può essere di «diritto», quando una società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria; di «fatto» nell’ipotesi in cui una società dispone dei voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria. Così M. Campobasso, Diritto commerciale, 10a ed., vol. II, Torino, 2020, p. 286.

[26] «An Italian headquarters, Italian legal incorporation and sole Italian listing were no longer an adequate reflection of the nature and geographical footprint of the business and did not best serve out capital and financing objectives». Form F-4 depositata alla SEC il 3 luglio 2014, p. 33.

[27] Il progetto comune di fusione venne approvato dapprima dal Consiglio di amministrazione di Fiat il 15 giugno 2014 e, successivamente, dal Consiglio di amministrazione di FCA il 27 maggio 2014. Cianfalone – A. Malan, Fiat diventa Fca e trasloca: sede legale in Olanda, quella fiscale in Gb, in Il Sole 24 Ore.

[28] Sul punto F. Pernazza, op. cit., p. 456.

[29] Form F-4 depositata alla SEC il 3 luglio 2014, p. 34.

[30] Il Gruppo Campari – Milano S.p.A. il 4 luglio 2020 ha perfezionato un’operazione di trasformazione societaria seguendo i principi e le linee guida della Direttiva 2019/2121.

In particolare, essa ha attuato il trasferimento della propria sede legale in Olanda con contestuale trasformazione in Campari- Milano N.V (Naamloze Vennootschap), cioè in una società regolata dal diritto olandese.

[31] R. Gallulo – A. Mincuzzi, Da Mediaset a Fiat-Chrysler: perché l’Olanda è il paradiso delle Holding, in Il sole 24 Ore, giugno 2019.

[32] «Multiple voting mechanism, particularly those that recognize the importance of core shareholders while encouraging new shareholders to invest for the long term can be effective in promoting long-term stability of a new stability». Form F-4 depositata alla SEC il 3 luglio 2014.

[33] Le informazioni sono tratte dal Sito Campari Group. Trasferimento della Sede Legale – Domande & Risposte.

[34] Sul punto F. Pernazza, op. cit., p. 459.

[35] F. Pernazza, op. cit., p. 478. Al riguardo è stato altresì sottolineato che «I CEMs possono costituire la valutazione primaria nella decisione dove (re)incorporare e, a sua volta, questo può sollecitare il legislatore dello Stato membro a mantenere o espandere il numero di CEMs disponibili» K. GEENS – K. J. HOPT, The European Company Law Action Plan Revisited: Reassessment of the 2003 priorities of the European Commission, 1° ed., 2010, p. 178.

[36] «The Board of Directors…believes that the loyalty voting structure may provide additional strategic flexibility for us to pursue attractive acquisition and strategic investment opportunities because the loyalty voting structure will ease the impact of any dilution in the economic interest of these core shareholders. Furthermore, the Board of Directors believes that enhancing the stability and loyalty of our broader shareholder base will strengthen the relationship between management and shareholders by limiting the distractions that may tend to arise from opportunistic short-term investors. The loyalty voting mechanism is designed to encourage investment by shareholders whose objectives are aligned with our strategic long-term development plans». Form F-4 depositata alla SEC il 3 luglio 2014, p. 35.

[37] F. Pernazza, op. cit., p. 473.

[38] Nel Bollettino n. 13 del 29 marzo 2021 l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato (AGCM) sottolinea al riguardo che «I limiti che l’ordinamento italiano continua ad esprimere nei confronti delle azioni a voto plurimo sembrano non tenere conto delle esigenze che il mercato manifesta e rappresentano, per le società interessate a mantenere o aprire una sede in Italia, ostacoli non desiderabili alla libera organizzazione dell’attività economica, destinati a tradursi in costi ingiustificati che spingono le imprese a non scegliere l’Italia come propria sede o a spostare quest’ultima all’estero, come più volte accaduto anche dopo la riforma del 2014».

[39] Ai sensi dell’art. 2:11890 del Dutch Civil Code ogni azione attribuisce almeno un voto. Però è possibile per le società emettere azioni con voto plurimo. I diritti di voto devono essere proporzionati al valore nominale che rappresentano: una società può quindi emettere categorie di azioni diverse tra loro per valore nominale.

[40] Decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 riguardante le «Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19». (20G00052) (GU Serie Generale n.128 del 19-05-2020 – Suppl. Ordinario n. 21). Il citato art. 45 della bozza, rubricato «Voto plurimo nelle società con azioni quotate in mercati regolamentati prevede» che: «1.Gli statuti possono prevedere l’emissione di azioni a voto plurimo ai sensi dell’articolo 2351, quarto comma, del codice civile. In deroga all’articolo 2351, quarto comma, del codice civile, gli statuti non possono tuttavia disporre la maggiorazione del voto in dipendenza del possesso delle azioni in capo al medesimo soggetto o di altre condizioni non meramente potestative concernenti il titolare delle azioni, se non nel rispetto e nei limiti previsti dall’articolo 127-quinquies. 2.Ferme restando le disposizioni degli articoli 2376, 2437 e 2373 del codice civile al ricorrere dei rispettivi presupposti, la deliberazione avente ad oggetto l’introduzione di una categoria di azioni a voto plurimo è validamente approvata con le maggioranze previste dagli articoli 2368 e 2369 del codice civile, a condizione che non vi sia il voto contrario della maggioranza dei soci presenti in assemblea diversi dal socio o dai soci che detengono, anche congiuntamente, la partecipazione di maggioranza anche relativa, purché tali voti contrari siano almeno pari al dieci per cento del capitale sociale avente diritto a voto. 3.Le disposizioni del comma precedente si applicano anche alle deliberazioni in forza delle quali il medesimo effetto consegua direttamente o indirettamente, anche mediante fusione o scissione, un’operazione in esito alla quale la società trasferisca la sede sociale all’estero».

[41] N. Ambriani, op. cit., p. 6.

[42] F. Riganti, Se un’azione (non) vale un voto, in Leoniblog.it, 2020.

[43] F. Riganti, cit., p. 2020.

[44] Relazione all’art. 45 della bozza del d.l. «Rilancio».

[45] M. Sagliocca, op. cit., p. 789.

[46] Dal momento che queste azioni triplicano il numero di voti, i titolari, pur detenendo la stessa percentuale di capitale sociale, avrebbero assunto un maggior peso in sede assembleare. In tal modo, essi, anche superando il volere di chi detiene la maggioranza dei titoli, riuscirebbero a contrastare decisioni volte ad aumentare il valore della società o, ancor peggio, assumere decisioni volte a favorire esclusivamente il gruppo di comando. P. Pilati, In borsa c’è voglia di superpoteri, in Financial Community Hub.it

[47] M. Sagliocca, op. cit., p. 797.

[48] L. Parilla, La deviazione dal principio “un’azione – un voto” e le azioni a voto plurimo nel nuovo “decreto rilancio”, in Salvis JuribusRivista di informazione giuridica, 2020.

[49] L. Enriques, EC Company Law and the Fears of a European Delaware, in EBLR, 2004, p. 1266 in cui si sottolinea altresì che i Paesi Bassi, come abbiamo avuto modo di vedere, sono lo Stato membro che più si avvicina all’offerta di un diritto societario competitivo alle imprese straniere.

[50] L. Enriques – A. Zorzi, Armonizzazione e arbitraggio normativo nel diritto societario europeo, in Riv. soc., 2016, p. 791.

[51] M. Ventoruzzo, The Disappearing Taboo of Multiple Voting Shares: Regulatory Responses to the Migration of Chrysler-Fiat, in ECGI Working Paper, No. 288, 2015, p. 17.

[52] L’importanza delle diversità è stata sottolineata anche dalla Commissione europea la quale «riconosce l’importanza della diversità nazionale e la difesa (…) di misure che consentiranno alle imprese di aumentare la propria mobilità giurisdizionale».

[53] A. Perrone, op. cit., p. 1307.

[54] L’espressione «race to the bottom» fu utilizzata per la prima volta da Louis Brandeis, giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, il quale affermò che «Companies were early formed to provide charters for corporations in states where the cost was lowest and the laws, least restrictive. The states joined in advertising their wares. The race was one not of diligence but of laxity».

Essa è stata successivamente mantenuta da William Cary, ex presidente della Securities and Exchange Commission (SEC), il quale definì questo deterioramento degli standard societari pro-management una vera e propria corsa al ribasso. L. A. Bebchuk, Federalism and the Corporation: The Desirable Limits on State Competition in Corporate Law, in The Harvard Law Review Association, 1992, p. 1444; Liggett Co. v. Lee 288 U.S. 517, 558; C. Cary, Federalism and corporate law: reflections upon Delaware, in Yale Law Journal, 1974, p. 666.

[55] L. A. Bebchuk, op.cit., p. 1444.

[56] ivi, p. 1445.

[57] È stato adeguatamente sottolineato che i soci, nel momento in cui la maggioranza decide di reincorporare la società altrove, possono negoziare adeguate tutele, nonché informarsi sulle implicazioni che tale scelta produrrebbe sul loro status. L. Enriques – A. Zorzi, op. cit., p. 787.

[58] L. A. Bebchuk, op.cit., p. 1445.

[59] J. A. Mccahery – P. M. Vermeulen, Does the European Company Prevent the “Delaware-effect”? in TILEC Discussion Paper, 2005, p. 789.

[60] Sulla diversità tra il mondo europeo e statunitense si specifica che «East is east and west is west. And never the twain shall meet. La famosa frase di Kipling ben si adatta al fine di sintetizzare i termini di un confronto tra diritto societario statunitense e diritto societario italiano e per azzardare una previsione sulla possibile convergenza tra i due sistemi. Sono due mondi giuridici molto lontani tra loro, per certi versi agli antipodi, e sono destinati, almeno nel prevedibile futuro, a restare tali». Così L. Enriques, Le regole della finanza. Diritto societario e mercato in Italia e in Europa, 2012, p. 274.

[61] A. M. Sachdeva, Regulatory competition in European company law, in EJLE, p. 145.

[62] ivi, p. 163.

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