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Attualità

Whistleblowing: limiti di utilizzo da parte del lavoratore

5 Marzo 2025

Antonio Cazzella, Partner, Trifirò & Partners Avvocati

Di cosa si parla in questo articolo

Il contributo analizza l’istituto del whistleblowing, focalizzandosi sui limiti del suo legittimo utilizzo da parte del lavoratore, alla luce della recente giurisprudenza della Cassazione.


1. Considerazioni generali

Il whistleblowing è una segnalazione anonima – nell’ambito di un’organizzazione pubblica o privata – di illeciti e/o di comportamenti scorretti, finalizzata a favorirne l’emersione nonchè, in un’auspicabile prospettiva, la prevenzione.

I principali interventi normativi sono costituiti dalla Legge n. 179/2017 – che ha introdotto misure di protezione per i dipendenti pubblici e privati che effettuano la segnalazione (modificando il D.Lgs. n. 165/2001 per il settore pubblico ed il D.Lgs. n. 231/2001 per il settore privato) – ed il più recente D.Lgs. n. 24/2023 che, attuando la Direttiva UE 2019/1937 (denominata “Direttiva sul whistleblowing”, in quanto volta a stabilire standard minimi per la protezione dei segnalanti), ha rafforzato la protezione per i whistleblowers nel settore pubblico e privato.

Da tali provvedimenti legislativi si evince una particolare attenzione, sul piano giuslavoristico, alle tutele predisposte nei confronti del segnalante, senza le quali nessun soggetto, probabilmente, si attiverebbe per inoltrare una segnalazione (nel timore di possibili ritorsioni), fermo restando che, proprio in una delle prime sentenze pronunciate in tema di tutele in favore del whistleblower, è stata evidenziata la necessità di valutare, preliminarmente, se il soggetto denunciante possa davvero essere considerato un whistleblower (Tribunale di Milano, 19 gennaio 2022, n. 108).

2. Alcune valutazioni sulle tutele in favore del segnalante. Possibili riflessi nell’ambito del rapporto di lavoro

Il D.Lgs n. 24/2023 individua i criteri per proteggere i whistleblowers sia da ritorsioni dirette (ad esempio, il licenziamento o il mobbing), sia da ritorsioni indirette (destinate a colleghi o familiari).

Le questioni suscettibili di valutazioni e di approfondimenti sono varie.

Ad esempio, si ricorda che le tutele si applicano se, al momento della segnalazione, l’autore aveva un fondato motivo di ritenere che le notizie segnalate, divulgate pubblicamente o denunciate, fossero veritiere (art. 16 del decreto).

È inoltre prevista, come nella disciplina precedente, l’inversione dell’onere della prova nel caso di un’eventuale ritorsione nei confronti del segnalante, che si presume, ove attuata, conseguenza della segnalazione (art. 17).

L’art. 17 del decreto contiene, peraltro, un’elencazione (non tassativa) di alcune fattispecie sussumibili in un comportamento ritorsivo (tra cui, ad esempio, sanzioni disciplinari, licenziamento, demansionamento, trasferimento, modifica dell’orario di lavoro, danni reputazionali).

L’inversione dell’onere della prova indubbiamente costituisce un’importante tutela per il segnalante, in considerazione di un differente e costante orientamento giurisprudenziale (in materia di licenziamento ritorsivo e di onere della prova in capo al lavoratore, cfr. Cass. 24 giugno 2024, n. 17266).

In ogni caso, se spetta ad datore di lavoro dimostrare – nell’ipotesi di un provvedimento adottato nei confronti del dipendente ed impugnato da quest’ultimo – l’assenza di un intento ritorsivo, è comunque opportuno ricordare che, per costante orientamento giurisprudenziale, l’intento ritorsivo deve assumere efficacia determinativa esclusiva della volontà (tra le tante, Cass. 9 maggio 2024 n. 12688) e che, ad esempio, al fine di configurare la ritorsività di un provvedimento, è quantomeno necessaria l’esistenza di un collegamento temporale tra i comportamenti oggetto di segnalazione ed il provvedimento datoriale contestato.

Peraltro, non si può neppure fondamente sostenere, come talvolta affermato, che la tutela riservata al lavoratore segnalante sarebbe indebolita da una interpretazione giudiziale troppo rigida sulla sussistenza della ritorsività, posto che l’inversione dell’onere probatorio, previsto dalla normativa in esame, non può certo condurre ad una violazione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito dall’art. 24 anche al datore.

Inoltre, a prescindere dalle questioni inerenti il tema della ripartizione degli oneri probatori, si ritiene importante evidenziare che, se la finalità delle norme che disciplinano il whistleblowing è quella di fornire una tutela al segnalante, deve, nel contempo, ritenersi riprovevole (e disciplinarmente rilevante) il comportamento di colui che, con l’intento (più o meno dichiarato) di segnalare un comportamento illegittimo, utilizzi in concreto l’istituto per conseguire, essenzialmente, un interesse personale.

In altri termini, è certamente ragionevole ritenere che attraverso la denuncia di fatti e/o comportamenti ritenuti illeciti il dipendente possa eventualmente tutelare la sua posizione lavorativa (anche per effetto delle iniziative adottate in seguito alla segnalazione), ma denunciare comportamenti illeciti e/o scorretti di altri soggetti per screditarli non può costituire il fine prevalente e/o esclusivo, non essendo sufficiente la sola presentazione di una segnalazione per assicurare l’immunità/impunità del lavoratore.

A conferma di quanto sopra esposto è intervenuta recentemente la giurisprudenza di legittimità, secondo cui non può assumere efficacia scriminante il comportamento del segnalante che agisca per scopi essenzialmente di carattere personale o, comunque, per contestazioni e/o rivendicazioni, nei confronti di superiori, inerenti il rapporto di lavoro (Cass. 27 giugno 2024, n. 17715; in tal senso si è pronunciata anche la giurisprudenza amministrativa, cfr. Consiglio di Stato 17 luglio 2023, n. 7002).

E’ quindi evidente che la responsabilità disciplinare del segnalante può essere esclusa solo quando le sue condotte siano funzionalmente correlate alla denunzia dell’illecito (Cass. n. 12688/2024, cit.).

Inoltre, se la previsione di una specifica normativa di tutela per il whistleblower può essere interpretata come una maggiore attenzione nei confronti del soggetto che effettua una segnalazione, è sempre necessaria un’attenta verifica sui profili di illegittimità del provvedimento asseritamente ritorsivo adottato nei suoi confronti, al fine di accertare se effettivamente sussiste la ritorsione, oppure se si tratti di un provvedimento illegittimo per altre ragioni: ad esempio, in una delle prime (conosciute) fattispecie esaminate dalla giurisprudenza di merito, il Tribunale di Bergamo – con sentenza n. 2 del 7 gennaio 2022 – ha annullato il licenziamento intimato ad un lavoratore/whistleblower per insussistenza del fatto materiale (non perchè ritorsivo in conseguenza della segnalazione effettuata).

3. Alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione sui limiti di utilizzo del whistleblowing

Un possibile uso illegittimo dei poteri concessi al segnalante è stato esaminato dalla giurisprudenza di legittimità richiamata nel precedente paragrafo (Cass. n. 17715/2024, cit.) sui limiti di utilizzo del whistleblowing.

In particolare, nella fattispecie esaminata, tralasciando la questione inerente la correttezza delle procedure osservate per segnalare l’accaduto, una dipendente – che aveva registrato la sua conversazione con un docente, pubblicandola su Facebook – ha dedotto l’efficacia scriminante di tale comportamento, affermandone la riconducibilità nel contesto “protettivo del whistleblower” (la vicenda riguardava il settore del pubblico impiego e la normativa sul whistleblowing abrogata dal d.lgs. n. 24/2023, tuttavia i principi affermati dalla citata sentenza ben possono essere applicati attualmente nonchè nell’ambito del rapporto di lavoro privato).

La Suprema Corte ha ricordato che, in linea di principio, non è illegittimo registrare una conversazione all’insaputa dei presenti (quindi senza il loro consenso), dovendo bilanciarsi il diritto alla riservatezza con quello della tutela giurisdizionale, purchè l’utilizzazione di tale registrazione occulta avvenga esclusivamente in ragione di tale finalità.

Dalla citata sentenza emerge chiaramente che una valutazione complessiva della vicenda può condurre alla conclusione che la segnalazione sia sostanzialmente finalizzata a screditare uno o più soggetti (nel caso esaminato, peraltro, è stato evidenziato che il comportamento della dipendente era stato aggravato dalla pubblicazione della registrazione su Facebook).

La tutela predisposta dall’ordinamento non può infatti riguardare l’ipotesi di un lavoratore che effettui di propria iniziativa indagini (anche violando la legge) per raccogliere prove di illeciti nell’ambiente di lavoro, in quanto tale tutela può essere legittimamente applicata solo nei confronti di chi segnala notizie di un’attività illecita, non potendo evincersi dalla normativa una tacita autorizzazione ad improprie ed illecite azioni di indagine (in tal senso, Cass. 17715/2024, cit.).

Anche recentemente, la Corte di Cassazione – richiamando giurisprudenza amministrativa sui limiti di utilizzo – ha precisato che “l’istituto del whistleblowing non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori. Questo tipo di conflitti infatti sono disciplinati da altre norme e da altre procedure. Le circolari emanate in materia hanno, inoltre, chiarito che le segnalazioni non possono riguardare lamentele di carattere personale del segnalante o richieste che attengono alla disciplina del rapporto di lavoro o ai rapporti con superiori gerarchici o colleghi, disciplinate da altre procedure” (Cass. 27 gennaio 2025 n. 1880).

In particolare, si segnala che un uso improprio del whistleblowing, in contrasto con i suoi limiti di utilizzo, non è suscettibile di comportare solo conseguenze disciplinari: infatti, la giurisprudenza amministrativa ha avuto occasione di evidenziare che, nel caso di segnalazioni motivate “non tanto dall’esigenza di una mera e lata volontà di concorrere a perseguire l’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione quanto piuttosto da un interesse personale e, comunque, strettamente connesso a rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori”, deve ritenersi legittimo il trasferimento del segnalante per incompatibilità ambientale (Consiglio di Stato, 6 dicembre 2021, n. 8150).

4. Considerazioni conclusive

Nei casi in cui venga invocata la tutela predisposta dalla legge in favore del segnalante occorre quindi verificare, preliminarmente, se il soggetto possa essere definito whistleblower e, nell’ipotesi di contenzioso giudiziale, fornire al Giudice gli elementi utili a dimostrare un eventuale uso personale del whistleblowing in contrasto con i sui limiti di utilizzo.

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