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Editoriali

Del MES, delle sue condizionalità e delle discipline in deroga. Cosa succede quando il diritto delle crisi d’impresa viene applicato ai rapporti intergovernativi.

30 Aprile 2020

Alessandro Mangia

Professore Ordinario di Diritto costituzionale, Università Cattolica di Milano

Di cosa si parla in questo articolo

1. Nelle ultime settimane i giuristi hanno scoperto il MES. Ossia, con uno dei tanti insopportabili acronimi che fanno parte del lingo del diritto dell’Unione, il Meccanismo Europeo di Stabilità.

Del MES, finora, si è parlato molto poco, tanto in Italia come in Europa. E ne hanno parlato soprattutto gli economisti. Ma ne hanno parlato soprattutto economisti che si sono beati della ‘potenza di fuoco’ di un oggetto che galleggia nell’indistinto che sta fra diritto internazionale, diritto bancario, diritto costituzionale senza essere in grado di coglierne le pericolose anomalie. Se a questo si aggiunge la polemica politica, e la cattiva informazione, si capisce perché del MES si sia potuto dire tutto e il contrario di tutto.

Del resto è naturale: se del MES io devo parlare in termini di polemica tra ‘sovranisti’ ed ‘europeisti’, e ne devo parlare nello spazio di una dichiarazione o di un’intervista governata dai limiti di attenzione del lettore di quotidiano, non posso essere raffinato. Sicché ogni discorso finisce con l’essere o parziale, o inconsapevole; ogni dichiarazione o è strumentale o è strumentalizzabile; ogni analisi mette in luce solo un aspetto del problema. Non solo: del MES non hanno parlato i giuristi, se non incidentalmente, e in occasione di qualche episodio giurisprudenziale straniero che pure avrebbe dovuto mettere in guardia (Corte costituzionale tedesca; Corte di Giustizia dell’Unione Europea).

Ma proprio perché il MES galleggia nell’indistinto, ognuno ha pensato che riguardasse altri: i costituzionalisti hanno pensato che riguardasse i comunitaristi; i comunitaristi capivano poco dei profili di diritto bancario e fallimentare che sono la sostanza del Trattato MES; i commercialisti non hanno mai pensato che il loro ambito di indagine dovesse toccare i rapporti interstatali; gli internazionalisti potevano guardare al MES come ad un Trattato internazionale, ma a parte questo avevano poco da dire.

Detto questo, cos’è il MES?  Diciamo che il MES è un escamotage per cercare di colmare un buco di progettazione originario del Trattato di Maastricht del 1992: una Banca Centrale che non fa le cose che normalmente fanno le Banche Centrali di tutto il mondo. Il che segna l’originaria anomalia del Progetto Europeo, da Maastricht 1992 fino al TFUE del 2008, per finire con l’oggi. E non dico questo pensando al mandato della Fed, che avrebbe tra i suoi obiettivi la tutela del livello di occupazione. Questo è vero, ma qui non c’entra.

L’Unione Europea non ha una Banca Centrale in senso proprio: nel senso di banca delle banche, e di prestatore di ultima istanza, come si diceva una volta. E’, la BCE, la replica funzionale di una Banca Federale, con alcuni grossi limiti di attribuzione di funzioni. E però con una capacità di condizionamento delle politiche nazionali che la Bundesbank non ha mai avuto (R. Bin, L’indipendenza delle Banche Centrali come principio costituzionale, in www.forumcostituzionale.it) In tempi di normalità, il sistema complessivamente regge. In tempi di crisi ci si accorge di questo difetto di attribuzioni: un difetto, sia chiaro, che non è casuale, ma voluto, visto che senza questo si sarebbe creato esattamente ciò che non si voleva e poteva: ossia un’Unione Federale del tipo degli USA. E la BCE sarebbe la FED, meno l’obiettivo di tutela dell’occupazione.

Da qui l’idea, apparsa nel 2011, di trasformare uno strumento temporaneo di intervento, il FESF del 2010, in un’istituzione (appunto) stabile che facesse, a certe rigorose condizioni, quello che non può fare la BCE (art. 136/3 TFUE): e cioè il MES. E per questo, con procedura semplificata, si è aggiunto in fretta e furia un 3° co. all’art. 136 TFUE (in fretta e furia, fino ad un certo punto: il TFUE è stato formalmente modificato solo nel 2013, un anno dopo la ratifica del Trattato MES, a seguito dell’opposizione della Repubblica Ceca).

Per questo il MES è una figura ambigua: perché è un’istituzione di diritto internazionale, ma raccordata dall’art. 136/3 all’ordinamento dell’Unione. Per gli economisti è un dato irrilevante: l’importante è che ci sia, e faccia quel che – (secondo loro – deve fare. Per i giuristi, che devono occuparsi non solo di ciò che il MES fa, ma soprattutto di ciò che il MES può legittimamente fare, è un grosso problema, soprattutto per le implicazioni che ne vengono. Un esempio di quanto intendo è che, se per un purissimo caso di scuola, domani mattina ci si svegliasse e si scoprisse che l’Unione Europea è sparita, per un prodigio o per una disgrazia della storia, scopriremmo con stupore che il MES, e soprattutto i suoi rapporti di debito e di credito, continuerebbero ad esistere intatti, non facendo parte il MES del diritto dell’Unione, pur essendo, a questo diritto, raccordato. Insomma, che ad Unione Europea scomparsa,  quei rapporti di debito e di credito possano continuare a legare al MES Stati e sistemi finanziari nazionali, fino alla loro scadenza naturale, dice molto di cosa sia diventata l’Unione Europea e, assieme a questa, cosa sia diventato il ‘metodo comunitario’ di cui si vagheggiava un tempo.

Per gli economisti, invece, il discorso si può chiudere subito dicendo che il MES è – come già l’EFSF, che continuerà ad esistere negli uffici e nelle sedi del MES fino a quando i crediti erogati dal 2010 al 2013 non saranno restituiti fra circa 40 anni – un financial vehicle. E cioè una struttura che consente ai suoi proprietari/controllori – in realtà ai suoi amministratori – di muoversi ed operare sui mercati finanziari, al pari di una qualunque società privata o di qualunque stato. In Italiano ciò che si avvicina di più alla definizione di financial vehicle sono le società di progetto che si sono diffuse, soprattutto dopo il 2011, per la cartolarizzazione dei mutui ipotecari. Per gli amanti degli acronimi, il MES sarebbe un MPV, un multi-purposed vehicle.: un veicolo finanziario multifunzione. E tanto dovrebbe bastare.

La polemica degli ultimi giorni sull’impiego del MES nella gestione della crisi finanziaria del Coronavirus riguarda essenzialmente due punti. Il tema delle condizionalità, e la possibilità che il MES venga impiegato come strumento per realizzare l’obiettivo del commissariamento dell’esterno del bilancio pubblico italiano. Il che è un rischio tutt’altro che astratto se si parte dal presupposto che la caratteristica fondamentale del Trattato è quella di utilizzare il diritto per la gestione delle crisi di impresa al rapporto fra stati.

2. Dal primo punto di vista va rilevato che, per quanti discorsi si facciano, l’attività del MES non può essere sganciata dalla nozione dal criterio di ‘rigorosa condizionalità’. Si tratta di un principio affermato dall’art. 136 co. 3 del TFUE; dall’art. 3 del Trattato MES; e ribadito dal Reg. 472/2013 (uno dei due Regolamenti che compongono il cd. Two pack sul rafforzamento della sorveglianza dei bilanci statali). In altre parole, per quanto dall’esterno il MES possa sembrare una normale banca d’affari di eccezionale capitalizzazione, il MES non può fare quello che vuole con la libertà che, a parole, gli si attribuisce nel dibattito attuale.

Anche per questo, parlare, con riferimento al MES, di condizionalità Light ha senso quanto può averne parlare di condizionalità Zero perché Sugar Free. L’attività del MES non è attività libera nel fine, che possa essere ricondotta alla sfera dell’autonomia privata o, comunque, alla libertà di impresa. E’, piuttosto, un’attività interamente e totalmente funzionalizzata all’obiettivo di mantenere la stabilità dell’Area Euro. Per questo il MES è stato creato, e a questi fini – e soltanto a questi – può agire. Si tratta di un vincolo finalistico, assai simile a quello che caratterizza gli enti pubblici del diritto interno, e che connota per in intero l’attività di quella che altrimenti potrebbe apparire una normale società finanziaria di robustissima capitalizzazione.

Insomma, come spesso avviene, è vero che le modalità d’azione del MES sono quelle del diritto privato e non sono diverse, da un punto di vista funzionale e dell’operatività, da una normale banca privata. Le finalità, però, per cui questa banca privata con prerogative sovrane (una banca sovrana?) può agire sono tipizzate dall’art. 3 del Trattato: e devono essere a) riconducibili al mantenimento della ‘stabilità finanziaria’ postulata dagli artt. 123-125 TFUE; b) devono rispettare sempre e comunque il canone della ‘rigorosa condizionalità’ del 136 TFUE; c) sono connotate dal criterio della indispensabilità. (art. 3 Trattato MES: “L’obiettivo del MES è quello di mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità, secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto, a beneficio dei membri del MES che già si trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari, se indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e quella dei suoi Stati membri)”. Insomma – e traducendo – il MES deve agire solo quando è indispensabile (e cioè quando gli stessi obiettivi non possano essere colti in altro modo: il MES è una extrema ratio, non un giocattolo bonne à tout faire); quando è a rischio la stabilità della Zona Euro; e lo deve fare solo sotto ‘stretta condizionalità’. In tutti gli altri casi non può: altrimenti salta l’effetto di disciplinamento postulato dal Trattati, da Maastricht a Lisbona. E si finisce in Corte di Giustizia (caso Pringle 2013)

E’ qualcosa che potremmo definire azione di diritto privato funzionalizzata al raggiungimento di obiettivi pubblicistici, se ci trovassimo nella sfera del diritto pubblico interno; oppure, guardandola, dal punto di vista del diritto commerciale, potremmo dire che l’attività del MES è rigorosamente limitata dalla definizione dell’oggetto sociale fissato nel Trattato: che però, stante la lettera dell’art. 3, ha finalità pubblicistiche.

Comunque la si metta, corollario di questo discorso è che ogni attivazione del MES diversa da quella descritta dall’art. 3 configura, propriamente parlando, un ultra vires o una carenza/sviamento di potere, secondo gli schemi del diritto pubblico; una violazione dell’oggetto sociale, secondo gli schemi del diritto commerciale. Che il MES possa essere attivato solo per un’emergenza sanitaria – come si è andati dicendo di recente – è solo la misura del fatto che chi ne parla non ha chiara la nozione di attività funzionalizzata.

3. Anche in ragione di questo, l’accesso ai finanziamenti del MES manda automaticamente i bilanci pubblici sotto procedura: né può fare altro (così, di recente, e fra i tanti, G. Tremonti, Il MES ci porta la patrimoniale e i ‘controllori’ europei in casa, in www.ilsussidiario.net del 28 aprile 2020).

Più precisamente, è vero che, stando alla lettera del Reg. 472/2013, e come dice qualcuno, l’attivazione del MES su una linea di finanziamento precauzionale ex art. 14 del Trattato non importerebbe di per sé la necessità di un aggiustamento macroeconomico (la cd. Troika, per capirci). Ed è vero che in passato il MES è stato utilizzato per sostenere il sistema bancario spagnolo, senza che – di fatto – siano stati imposti aggiustamenti macroeconomici.

Però è vero che questo è solo uno dei lati della medaglia.

L’altro lato è dato dal fatto che l’erogazione di un sostegno di portata limitata (36 mld.) e finalizzato alle sole e cosiddette ‘spese sanitarie’ (solo letti e respiratori o anche stipendi? E chi opera nella sanità con i soldi del MES deve limitarsi a curare i malati di Coronavirus o può fare anche altro?) porta con sé inevitabilmente l’assoggettamento dei bilanci dello Stato beneficiato dall’assistenza a una procedura di ‘sorveglianza rafforzata’. Ed ovvio: se la logica è quella delle crisi di impresa è soltanto naturale che l’istituzione finanziatrice vogli vedere i conti del finanziato per essere sicura di rientrare dal credito. Ma non è soltanto la logica della crisi di impresa a spingere in questo senso. E’ anche l’intelaiatura istituzionale degli artt. 123-125 TFUE, che pone al vertice della ‘costituzione economica’ europea un divieto di bail-out dei bilanci pubblici, e un conseguente divieto di mutualizzazione tanto del debito pubblico, quanto del rischio di credito fra gli Stati appartenenti all’Area Euro. Per averne conferma basta leggere l’art. 2 co. del Reg 472: “Se uno Stato membro beneficia di assistenza finanziaria a titolo precauzionale da uno o più altri Stati membri o paesi terzi, dal MESF, dal MES, dal FESF o da un’altra istituzione finanziaria pertinente, quale l’FMI, la Commissione sottopone a sorveglianza rafforzata detto Stato membro”

La sorveglianza rafforzata presuppone una serie di missioni periodiche di controllo dei bilanci dello Stato beneficiato, descritte dall’art. 3. co 5. Il punto è che, come dice il co. 7 dello stesso Regolamento,  “Se, sulla base delle missioni di verifica di cui al paragrafo 5, la Commissione giunge alla conclusione che sono necessarie ulteriori misure e che la situazione economica e finanziaria dello Stato membro in questione ha importanti effetti negativi sulla stabilità finanziaria della zona euro o dei suoi Stati membri, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, può raccomandare allo Stato membro inte­ressato di adottare misure correttive precauzionali o di predi­sporre un progetto di programma di aggiustamento macroeco­nomico.”

Insomma, è chiaro che la sorveglianza rafforzata può portare a valutazioni difformi da quelle iniziali al mutare della situazione di bilancio: ed è ovvio, altrimenti nemmeno si farebbero le missioni. Ed in quel caso la Commissione – a maggioranza, e dunque, senza il consenso dello Stato interessato – può adottare una raccomandazione che porta ad un programma di aggiustamento macroeconomico. Certo, raccomandazione non è decisione. Però è facile capire che la logica del rapporto fra Commissione e Stato interessato è molto simile a quella del rapporto fra contraente debole e contraente forte: tanto più che la posizione dello Stato beneficiato – e del suo sistema bancario – è pesantemente condizionata dall’atteggiamento della BCE in punto di linee di finanziamento della Banca Centrale nazionale; in punto di acquisti del debito pubblico sul mercato secondario; e, da ultimo, dall’atteggiamento dell’istituzione finanziatrice in punto di erogazione delle diverse tranches del finanziamento.

La questione è che, una volta avviato il Programma di aggiustamento macroeconomico, ad essere formalmente padrona del bilancio dello Stato finanziato è la Commissione, visto che è la Commissione a deliberare – sempre a maggioranza qualificata, e dunque anche senza il consenso dello Stato interessato – i successivi aggiornamenti necessari a conseguire gli obiettivi di finanza pubblica prefissati. Qui l’art. 7 co. 5 è chiarissimo: “La Commissione, d’intesa con la BCE e, se del caso, con l’FMI, esamina insieme allo Stato membro interessato le even­tuali modifiche e gli aggiornamenti da apportare al programma di aggiustamento macroeconomico, al fine di tenere debita­mente conto, tra l’altro, di ogni scostamento significativo tra le previsioni macroeconomiche e i dati effettivi, anche alla luce delle eventuali ripercussioni derivanti dal programma di aggiustamento macroeconomico, da ricadute negative e da shock macroeconomici e finanziari. Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, decide in merito alle modifiche da apportare a tale programma”.

E allora, si può essere ragionevolmente sicuri, che l’accesso alla ECCL (Enhanced Conditions Credit Line) ex art 14 Trattato MES sia un buon affare per lo Stato italiano? E che quanto scritto nel famoso Memorandum of Understanding che dovrebbe regolare le condizioni del finanziamento sulla Linea Covid di cui si parla sia una garanzia sufficiente? Il tutto, ammesso e non concesso che il MES possa operare al di fuori delle condizioni di intervento fissate nel 136 TFUE e nell’art. 3 Trattato MES?

Di fronte a questi interrogativi, si capisce che richiamare l’esempio del finanziamento al sistema bancario spagnolo, per sostenere la possibilità del finanziamento Light, non serve a niente. E’ un modo di ragionare – mi si passi il termine – da funzionario di banca, inconsapevole del quadro normativo in cui opera e delle implicazioni di quello che fa. Se in Spagna la Commissione e il MES, a finanziamento erogato, non hanno imposto aggiustamento macroeconomici, è semplicemente perché non ne hanno ravvisato la necessità. Ma è altrettanto vero, sulla base della disciplina del Reg. 472, che avrebbero potuto farlo benissimo.

In fondo è ovvio: la finalità del MES non è quella di sovvertire la democrazia o affamare i popoli. E’ quella, piuttosto, di rientrare dal credito erogato. E in quella prospettiva deve doverosamente agire, lasciando in ombra tutto il resto, utilizzando le armi potenti che l’architettura istituzionale europea mette a sua disposizione, a partire dalla sua qualificazione di creditore privilegiato.

4. Detto tutto questo, è insuperabile il rigore dei Trattati TFUE e MES e dei Regolamenti del Two Pack, che vincolano l’azione del MES a ‘strette condizionalità’, meccanismi di ‘sorveglianza rafforzata’ e ‘aggiustamenti macroeconomici (e cioè Troika)? Non c’è possibilità che il MES ed i Trattati possano essere impiegati in modo più adeguato alla situazione?

I Trattati Europei sono stati definiti, qualche tempo fa, come Trattati stupidi per alludere alla loro rigidità ed al loro ancoraggio ai famosi parametri del 3% e del 60%. Il che è senz’altro vero, se si vuole cogliere il senso – figurato – dell’espressione. Ma stupido del tutto non doveva essere chi, avvertito dell’esistenza delle dottrine dell’emergenza e dell’eccezione dai tempi di S. Romano e C. Schmitt, ha inserito nel TFUE un art. 122, il quale, al primo comma si occupa delle crisi petrolifere ed energetiche (la memoria degli anni ’70 doveva essere ancora viva quando questo co. è stato scritto), ma al co. 2 – e lo abbiamo già ricordato – si dice che “il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere a determinate condizioni un’assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro interessato” quando “uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo”.

Insomma, il 122 TFUE consente l’inserimento di discipline in deroga all’intelaiatura dei Trattati, purché temporanee e limitate (principio di proporzionalità) e purché riferibili a ‘circostanze eccezionali’ che sfuggono al controllo dello Stato interessato.

E allora, se il Reg. 472/2013 porta inevitabilmente chi chiede un’assistenza al MES ad un aggiustamento macroeconomico, solo per una strada più tortuosa di quella ordinaria, e stante che l’unica cosa certa è un drammatico calo del PIL, e l’unica cosa incerta è la misura di questo calo,  non sarebbe meglio approvare una disciplina in deroga che escluda una tantum l’applicabilità del Reg 472/2013, anziché incistarsi un discorsi capziosi sul fatto che l’unica condizionalità richiesta, in questa situazione, dal MES sarebbe il vincolo alla spesa sanitaria?  E che quei soldi sarebbe un peccato non prenderli?

In realtà, per sospendere o derogare il Reg. 472 non ci vorrebbe molto tempo, al di là di quello già sprecato. Tanto più che l’art 119 TFUE prevede la possibilità di Regolamenti delegati. E, allora perché non seguire subito la strada maestra, anziché proporre forzature pericolose, che nulla hanno a che fare con la certezza delle situazioni sostanziali coinvolte nella curiosa querelle sulla fattibilità di un MES cd. Light? Se l’obiettivo è davvero questo, non si capisce perché non battere questa strada, e non passare dal MES Light (a condizionalità sanitaria) al MES Zero, in deroga a tutto quanto detto finora.

Così come non si capisce perché – nella più grande crisi affrontata dall’Europa dal 1945 ad oggi – il 122 TFUE non possa essere impiegato come porta per ripensare, almeno temporaneamente, l’architettura ingenuamente ottimista dei Trattati.

Se solo ci si fermasse un attimo a ragionare su tutto questo, si capirebbe che i Trattati non saranno un granché. Ma stupidi, come piace definirli, non sono. E si capirebbe che scaricare tutto sulla presunta ‘stupidità’ dei Trattati può convenire moltissimo. Perché stupidità (dei Trattati) e malafede (di chi li governa) non si escludono mai a vicenda. Per questo possono nascondersi l’una dietro l’altra. Ed essere difficili da distinguere.

E, allora, a fronte delle consistenti anomalie che si sono avute nella fase di scambio degli strumenti di ratifica del Trattato nel settembre 2012 – una serie di Dichiarazioni interpretative resesi necessarie   a seguito di una decisione del BVerfG del 12 settembre 2012 – che appare quanto mai problematica del punto di vista dell’art. 46 Convezione di Vienna sul diritto dei Trattati; e a fronte del fatto che, a seguito di quella sentenza, il Trattato MES in vigore in Germania è considerevolmente diverso da quello in vigore in tutti gli altri Stati; e in considerazione del fatto che lo stesso Trattato può essere impugnato davanti alle Corti costituzionali di tutti e Paesi della Zona Euro sulla base di quel precedente, non sarebbe meglio pensare ad una disciplina speciale per il MES Light? O, semplicemente, non usarlo affatto?

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