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Editoriali

Il “successo sostenibile” del Codice di corporate governance. Prove tecniche di attuazione

5 Febbraio 2021

Mario Stella Richter jr

Professore ordinario di diritto commerciale, Università di Roma “Tor Vergata”

Di cosa si parla in questo articolo

Secondo il nuovo Codice di corporate governance il ruolo dell’organo amministrativo della società quotata è quello di «guida[re] la società perseguendone il successo sostenibile». Il successo sostenibile «si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società». Sulla vaghezza di queste formule, sulla loro ambiguità e sulle relative conseguenze ho provato a ragionare in uno studio intitolato Long-Termism destinato agli Scritti in onore di Vincenzo Di Cataldo. Qui vorrei invece svolgere qualche osservazione su come possono essere recepite.

Come accade per buona parte delle raccomandazioni autodisciplinari, la loro attuazione può realizzarsi attraverso recepimenti che si traducono in corrispondenti modificazioni statutarie e attuazioni che si fondano solo su decisioni degli organi amministrativi (magari riflettendosi nei rispettivi regolamenti interni). Questa distinzione resta significativa per il diverso grado di cogenza e stabilità che il recepimento fatto a livello statutario comporta. I recepimenti statutari sono più rari e tuttavia non mancano significativi esempi di emittenti che già si sono mossi per “consacrare” lo scopo del successo sostenibile nei loro statuti. A spingere verso un recepimento di questo tipo può essere anche il desiderio di dare alla decisione il massimo effetto promozionale, ma, comunque, ne consegue un grado di maggiore stabilità: la scelta di rifarsi a quel principio si impone non solo agli attuali amministratori ma a tutti i successivi (fino alla eventuale abrogazione della norma statutaria).

Ma quali sono le principali opzioni per recepire sul piano statutario lo scopo della sostenibilità? Due strade sono state sin qui in concreto percorse. Da un lato, quella della enunciazione statutaria di uno “scopo” (il c.d. purpose) della società, che «esercita e organizza l’attività d’impresa con lo scopo di perseguire il successo sostenibile attraverso la creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholderrilevanti». Dall’altro, quella di agire sul fronte dei poteri degli amministratori, disponendo che «l’organo amministrativo guida la società perseguendo il successo e la crescita sostenibile a beneficio degli azionisti». E tuttavia, al di là delle differenze di dislocazione “topografica” dell’enunciato, le due soluzioni non comportano significative differenze in punto di conseguenze operative. Tra l’altro nessuna delle due rappresenta di per sé una modificazione da cui consegue un diritto di recesso. La formula del successo sostenibile non acquisisce maggiore o minore cogenza se declinata come scopo della società o come fine degli amministratori, che sono, del resto, aspetti connessi e complementari: è comunque agli amministratori che spetta in via esclusiva il compito di perseguire lo scopo della società attraverso la organizzazione e la gestione dell’impresa sociale.

Qualche maggiore differenza potrebbe forse cogliersi a seconda che lo scopo del successo sostenibile sia declinato a esclusivo beneficio degli azionisti o se, viceversa, debba essere perseguito «tenendo conto degli interessi degli altri stakeholderrilevanti». Tuttavia, a ben vedere, anche qui le differenze sono più apparenti che reali. Nel primo caso probabilmente nulla è cambiato rispetto al classico modello societario, poiché gli amministratori sono pur sempre chiamati a creare valore per gli azionisti e il richiamo alla sostenibilità può volere dire tante cose (sostenibilità interna e quindi semplice salvaguardia della continuità aziendale; o anche sostenibilità esterna e quindi considerazione dell’impatto dell’attività di impresa sul clima, sull’ambiente, sulla società e su mille altre cose), ma lo statuto non chiarisce il significato in cui il termine è usato e gli amministratori restano padroni di valutare anche gli interessi “altri” nella misura in cui discrezionalmente ritengano che la loro considerazione giovi, per così dire “sinergicamente”, alla creazione di valore per i soci. Nel secondo caso, invece, il richiamo alla considerazione degli interessi “altri” è espresso e tuttavia, proprio perché non si specificano quali siano questi altri rilevanti stakeholder e neppure in che senso il tenere conto dei loro interessi possa incidere sul perseguimento dello shareholder value, è evidente che all’atto pratico la discrezionalità degli amministratori non potrà certo dirsi diminuita; semmai ampliata, nella misura in cui, di fronte a un sacrificio (peraltro difficilmente quantificabile e dimostrabile) dell’interesse degli azionisti, gli amministratori potranno invocare la doverosa «considerazione» degli ulteriori valori, fattori, interessi… e comunque annacquare il tutto nelvago orizzonte del lungo termine (nel quale comunque… we are all dead).

La realtà è che “successo sostenibile”, sustainability, long-term, et similia non sono di per loro formule idonee a tradursi in regole operative e meccanismi precettivi. Esse non paiono poter costituire parametri idonei a orientare in modo preciso l’azione degli organi sociali e, conseguentemente, non riescono a rappresentare presupposti per agire in responsabilità nei confronti degli amministratori: non è attraverso tali parametri che è possibile dire che vi sia stato uno scostamento rispetto al comportamento dovuto.

In questo senso, il principio del successo sostenibile e, quindi, il suo stesso richiamo statutario, se forse non fa male (sempre che non finisca per ampliare lo spazio di potere discrezionale degli amministratori, che in certa misura è utilissimo e necessario, oltre ogni limite del tollerabile), certamente non è la panacea che molti (e alcuni non disinteressatamente) professano.

Se dunque limiti e controindicazioni della formula del successo sostenibile risiedono proprio nella sua vaghezza e ambiguità, ne discende che non è tanto la sua elevazione a rango di precetto statutario che può contribuire a superarli. Quel principio, così fortemente connotante il nuovo Codice di corporate governance, può assumere un certo significato solo se declinato, specificato e adeguatamente circostanziato. Ed infatti in uno dei due casi cui ho fatto riferimento la invocazione del successo sostenibile è preceduta nella introduzione da questa meno vaga previsione: «La Società svolge attività d’impresa con la finalità di favorire la transizione energetica verso forme di utilizzo delle risorse e delle fonti di energia compatibili con la tutela dell’ambiente e la progressiva decarbonizzazione».

Ora il rilievo di questo esempio consiste nel riportare alla ribalta i c.dd. elementi ideali dell’atto costitutivo. Si tratta di previsioni che si traducono in specificazioni e limiti all’oggetto della società e che rappresentano, con ogni probabilità, i mezzi meno generici e più concreti per vincolare la società e i suoi amministratori a condotte responsabili dal punto di vista ambientale, sociale o per perseguire altri interessi ideali giudicati meritevoli dagli azionisti, dagli investitori e dal mercato. Siffatti limiti di ispirazione ideale all’oggetto sociale e, dunque, queste perimetrazioni dell’attività economica propria dell’impresa sociale non sono una novità e se ne rintraccino risalenti ed illustri esempi negli statuti di note società azionarie anche straniere.

Sono previsioni che, incidendo sulla portata dell’oggetto sociale, comportano normalmente l’insorgere del diritto di recesso; almeno se formulate in modo sufficientemente preciso e non meramente affabulatorio: quando cioè si sostanzino – anche se declinate in termini solo programmatici come nel caso utilizzato come esempio – in una modificazione dell’ambito dell’attività economica che la società è chiamata a svolgere. Si tratta di una conseguenza non solo molto rilevante in sé, ma anche espressiva del fatto che solo quando il recepimento della raccomandazione autodisciplinare ha una sua qualche portata precettiva e un suo certo grado di cogenza, allora ne può addirittura discendere il diritto dei soci al disinvestimento. Mentre ovviamente, se tutto rimane a livello di vacue formule verbali, non è un enunciato di astratti scopi, propositi o missioni (magari su orizzonti temporali più o meno lunghi) che può dare vita a conseguenze rilevanti come il recesso.

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