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Editoriali

La riforma dell’Agenzia per l’amministrazione dei beni confiscati alle mafie

14 Marzo 2017

Sandro Amorosino

Di cosa si parla in questo articolo

L’Agenzia – in realtà un normale ente pubblico – che amministra i beni, mobili ed immobili, sottratti alle mafie rappresenta un tipico caso di mancata individuazione di un obiettivo strategico da parte di una struttura amministrativa.

Lo stesso Ministro Orlando, recentemente intervistato in televisione da Minoli, ha riconosciuto che l’Agenzia “non funziona”.

Il motivo è semplice: è un organismo burocratico, gestito da prefetti in commistione, in sede locale, con i magistrati, con la conseguenza ch’è del tutto trascurata la gestione economica dei beni, che dovrebbe rappresentare una delle punte di lancia per togliere spazio all’economia mafiosa.

I beni sequestrati e confiscati dovrebbero avere elettivamente due tipi di destinazioni.

La prima è costituita dall’assegnazione di singoli beni immobili ad istituzioni pubbliche (ad esempio caserme) o ad associazioni private impegnate nel sociale.

A prescindere dalla farraginosità e dalla discrezionalità delle assegnazioni appare, in astratto, chiara la funzione di presidio – istituzionale e culturale – del territorio.

Viceversa è rimasta in gran parte inattuata la funzione di gestione imprenditoriale, e quindi di sviluppo economico, delle aziende confiscate (spesso con la giustificazione – del tutto inappagante – di evitare il rischio di riconsegnarle ad ambienti criminali).

All’origine vi è un errore di prospettiva: le aziende vitali, che sono o sarebbero in grado di competere correttamente sul mercato, vanno affidate a gestori professionali (scelti, ovviamente, in base alla competenza oltre che all’onestà) per renderle competitive e profittevoli.

In un Paese non attanagliato dalla cultura del sospetto i necessari controlli dovrebbero esser centrati sull’efficienza della gestione ed affidati a comitati di vigilanza di aziendalisti e manager (nominati a titolo onorario). E l’avere ben gestito le aziende (ad esempio: agroalimentari) o i compendi di beni (ad esempio: un villaggio turistico) confiscati dovrebbe costituire un elemento qualificante ai fini del curriculum dei manager.

Analogo discorso dovrebbe farsi per la gestione finanziaria professionale delle somme sequestrate.

Tutto ciò comporterebbe una gestione centralizzata da parte dell’Agenzia.

Un effetto collaterale molto importante sarebbe quello di evitare, a livello locale, gestioni personalistiche, ed in qualche caso clientelari, da parte di singoli dirigenti dell’Agenzia o di magistrati di sorveglianza (ma anche, più semplicemente, gestioni inefficienti, perché le valutazioni economico-imprenditoriali sono estranee ai burocrati e magistrati, pur altrimenti meritevoli).

Quel che si propone è, dunque, un deciso mutamento di cultura amministrativa: “non sta scritto da nessuna parte” che lo Stato non possa e non debba assicurare la redditività proprio dei beni di provenienza mafiosa, dando un segnale di efficienza sia agli “affiliati” che ai cittadini (molto più efficace delle rituali giaculatorie di alcuni professionisti dell’antimafia).

Ci rendiamo ben conto delle resistenze che l’ipotizzato “salto” culturale, politico ed economico susciterebbe in tutti coloro che dall’attuale disfunzionale situazione traggono occasione di potere o di sostegno finanziario ad organizzazioni no profit, quasi sempre meritevoli, ma adagiate in una prassi di aiuti finanziari pubblici i cui risultati effettivi nessuno è in grado di controllare.

Ma, ancor prima delle eventuali resistenze, è la forza d’inerzia del “kombinat” burocratico-giudiziario ad impedire il cambio di prospettiva.

È sufficiente, in proposito, leggere le modifiche all’ordinamento dell’Agenzia contenute nel disegno di legge (Atto Senato 2134) all’esame del Parlamento per accorgersi che al centro dell’attenzione è il dosaggio dei componenti nel Consiglio Direttivo, mentre agli esperti di gestione è riservato solo un ruolo consultivo.

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