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In ricordo di Stefano Rodotà

6 Luglio 2017

Ugo Mattei

Law professor, UC Hastings and University of Turin

[*] Una volta che qualcuno mi chiamo costituzionalista, Stefano con la solita deliziosa ironia mi disse: “Hai fatto carriera! Sai, all’inizio provavo a correggerli, poi ci si abitua…”. Rodotà infatti era come me un civilista e ne era estremamente orgoglioso. E’ stato uno dei più grandi civilisti europei contemporanei e non ho dubbi sia stato il più eminente fra quelli italiani. Era dotato di una apertura cosmopolita straordinaria. Conoscitore profondo della cultura giuridica francese e di quella tedesca, fu fra i primissimi in Italia ad avvicinarsi a quella angloamericana. Aveva iniziato la sua carriera accademica, giunto a Roma da Cosenza, con il grande Rosario Nicolò, che insieme al messinese Salvatore Pugliatti e al milanese Cesare Grassetti, faceva parte di un triumvirato di eccezione che dominò la scena nazionale nel dopoguerra. A differenza del maestro, di cui era allievo prediletto, Stefano non divenne mai un giurista forense. Era troppo interessato agli studi accademici e alla politica del diritto per dedicarsi all’avvocatura. La sua precocissima maturità scientifica e la sua insaziabile curiosità per le istituzioni che governano i rapporti sociali fra privati lo spingevano verso ben altre avventure intellettuali.

Stefano studioso interdisciplinare ante litteram iniziò prestissimo a approfondire la dimensione sociologica, quella economica e quella storico filosofica del diritto civile, in un momento in cui i nostri giuristi erano ancora dediti ad analisi di stampo formalistico. In effetti i suoi coraggiosi studi antiformalistici sugli istituti fondamentali del diritto civile esplosero come mine nel sonnolento panorama della civilistica dei primi anni sessanta. Ricordo che una delle prime volte in cui passai un po’ di tempo con lui – correva l’ anno 1983 era già deputato della Sinistra Indipendente e stavo dandogli una mano al disegno di legge contro il piombo nella benzina – mi disse che prima di dedicarsi alla politica aveva voluto scrivere sui tre istituti civilistici fondamentali, la proprietà, il contratto e la responsabilità civile, perché soltanto così facendo si sarebbe sentito un giurista vero.

Il suo libro, Il problema della Responsabilità civile del 1961 inaugurò una stagione nuova di studi (poi portati avanti fra gli altri dal suo allievo del periodo genovese Guido Alpa). I suoi studi sulla proprietà privata (poi raccolti nel volume Il terribile diritto) marcarono indelebilmente la più politica fra le istituzioni civilistiche. La monografia sulla clausola di buona fede contrattuale ebbe fortuna immensa negli studi sul contratto (proseguiti dal suo allievo Enzo Roppo).

Difficile immaginare una triade di contributi su temi tanto diversi e fondamentali destinata a tanto successo accademico. La stupenda cultura politica di Stefano (accumulata da studioso ben prima dell’ esperienza parlamentare) gli aveva in effetti consegnato una potente chiave di lettura unitaria della materia civilistica. La chiave era la Costituzione che nessuno prima di lui ( e neppure dopo a mio modesto avviso) ha mai saputo integrare in modo tanto tecnicamente perfetto nel fraseggio di un diritto civile ancora racchiuso nel Codice fascista. Ricordo di una voce Proprietà pubblicata sul Nuovissimo Digesto Italiano nel 1964, quando ancora era assistente a Macerata, che io lessi nella biblioteca di una cittadina ligure, fresco di maturità durante l’estate del 1979 e che mi fece scegliere definitivamente di iscrivermi a giurisprudenza. Che passione civile, che tensione politica, che ricchezza culturale in quelle pagine che Stefano scrisse appena trentenne! C’era in lui più di un tratto di Lelio Basso, forse il padre Costituente che Stefano amò di più. Sebbene non ci fosse in Rodotà una matrice marxista, c’era tuttavia un naturale talento ad esplorare il diritto come prodotto di strutture tecnologiche complesse che lo portarono, prima di tutti gli altri, a misurarsi coi problemi della tecnica e della scienza in studi che poi dovevano sfociale nei lavori sulla privacy (fu lui il vero fondatore dell’ Authority Italiana) e sulla bioetica\biodiritto (scrisse sul caso Englaro pagine di grande spessore morale e filosofico).

Ho avuto la fortuna di lavorare con lui molto da vicino, come suo Vice nella c.d. Commissione Rodotà, poi ai Referendum sull’acqua e infine alla Fondazione Teatro Valle e alla Costituente per i beni comuni. Sono stati gli anni del suo grande ritorno sulla scena politica come protagonista dei movimenti, deluso dal professionalismo politico. L’ho visto spessissimo fra la gente comune. Era commovente e insieme rigenerante vedere quel suo meraviglioso calore umano. Se in Italia ci fosse stata l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, lo sarebbe certamente diventato nel 2013. Se la nostra politica avesse saputo scegliere le persone migliori sarebbe stato giudice della Corte Costituzionale, un organo che da anni manca di civilisti di vaglia. Se l’Università non fosse luogo di invidia, sarebbe stato da anni Accademico dei Lincei. Ma Stefano non si sarebbe mai fatto rattristare per questi sgarbi. Adorava stare coi giovani studiosi, vederli crescere, anche se negli ultimi anni, deluso dalle chiusure del sistema accademico, era riluttante a fare scuola. Ha fondato due fra le più importanti riviste giuridiche italiane (Politica del diritto e Rivista Critica) restate sempre come lui, giovani aperte e antiformaliste. L’ultima volta che l’ho visto, qualche mese fa a Napoli insieme alla Sua Carla, mi ha abbracciato (era la prima volta). Mi ha ringraziato per il libro che una mia giovane allieva gli aveva dato. Era stanco. Mi disse: “quando si torna a casa da una visita medica è bello avere un libro bello che ti attende…”. Allora a stento ho trattenuto le lacrime che adesso non riesco a fermare.

 

[*] Coccodrillo pubblicato sul Il Fatto Quotidiano il giorno della morte di Stefano Rodotà.

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