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Attualità

La riforma del reato di abuso d’ufficio: un argine al sindacato del giudice penale sulla discrezionalità della pubblica amministrazione

20 Luglio 2020

Carlo Tremolada e Alessia Pontacolone, Arata e Associati

È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 luglio 2020 il decreto legge n. 76/20 recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”. A dispetto dell’indicata “urgenza” delle misure normate nel decreto, il provvedimento è stato in realtà frutto di un percorso lungo e travagliato e di un dibattito vivace tra le diverse forze politiche della maggioranza, e per divenire definitivo dovrà comunque essere convertito in legge nei tempi previsti dal dettato costituzionale. Il decreto prevede, appunto, anche la rimodulazione dell’attuale fattispecie delittuosa dell’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), per la comprensione della quale non si può ovviamente prescindere da un cenno alla portata ed agli scopi del complessivo corpus normativo ex D.L. 76/20.

I 65 articoli che compongono il testo del decreto legge rappresentano un intervento normativo organico volto ad implementare la ripresa economica del Paese attraverso una decisa accelerazione degli investimenti pubblici nei settori dell’edilizia e delle infrastrutture, per un verso semplificando i procedimenti amministrativi e gli adempimenti burocratici per l’affidamento degli appalti, e per altro verso rimuovendo gli ostacoli, anche di natura psicologica, all’iniziativa degli amministratori pubblici, spesso bloccati nell’attività decisionale dal timore di incappare in responsabilità amministrativa e/o penale a causa di scelte discrezionali ritenute censurabili dall’Autorità giudiziaria, salvo poi – come l’esperienza dimostra – il più delle volte venire assolti da ogni accusa, magari dopo molti anni. Detto in altri termini, il legislatore ha ritenuto che non fosse sufficiente eliminare i vincoli burocratici e riscrivere le regole poste a presidio dell’affidamento dei pubblici contratti, ma occorresse altresì riparametrare i confini della responsabilità dei pubblici amministratori specificando in termini precisi e determinati – tipizzando, insomma – le condotte sanzionabili sul piano erariale e sul piano penale. Quanto più la condotta astrattamente sanzionabile è tassativa e determinata nella sua formulazione, tanto più il pubblico amministratore sarà in grado di discernere e prevedere a quali condizioni ed in quali situazioni il proprio comportamento potrà essere per lui fonte di responsabilità erariale e/o penale. Sotto tale profilo pare degna di rilievo la regola introdotta dall’art. 21 d. l. 76/20, laddove, in punto di responsabilità erariale, prevede che i pubblici funzionari sino al 31 luglio 2021 potranno essere perseguiti dalla giurisdizione contabile (Corte dei Conti) solo nel caso in cui il danno sia il frutto di una condotta sorretta da dolo, vale a dire di un’azione intenzionale, mentre in caso di inerzia del pubblico funzionario, questi potrà essere perseguito per i danni derivati all’amministrazione di appartenenza anche a titolo di colpa. Insomma, parrebbe oggi più rischioso per il pubblico ufficiale, al cospetto della nuova disciplina, “non fare” che “fare male”.

Ebbene, si situa qui, nel contesto di simile intervento di complessivo efficientamento dell’azione amministrativa, la nuova fattispecie di abuso d’ufficio. L’art. 23 del D.L. 76/20, in sintesi, nel tentativo di restringere gli spazi del controllo giurisdizionale (penale) sulle decisioni e sulle scelte discrezionali dei pubblici amministratori, prevede che gli stessi possano essere colpiti con la sanzione criminale prevista dall’art. 323 c.p. solo nel caso in cui l’evento del reato (vale a dire: l’ingiusto vantaggio patrimoniale a proprio o altrui favore o l’ingiusto danno altrui) siano la conseguenza della violazione di “specifiche regole di condotta espressamente previste da leggi oppure da atti ad essa equiparati e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, e non già di mera violazione di generiche “norme di legge o di regolamento” (come nella versione previgente). Il riferimento alla necessità che la disposizione e/o la regola violata non sia di quelle che offrano spazi di discrezionalità al pubblico funzionario non pare lasciare dubbi sulle finalità della novella: l’amministratore pubblico non potrà mai essere perseguito penalmente ai sensi dell’art. 323 c.p. tutte le volte che si trovi ad operare in contesti normativi che – pur fissando gli obiettivi di pubblico interesse da perseguire nello specifico caso – lascino ad esso amministratore la libertà di scegliere le concrete modalità per la loro realizzazione. In tali casi verrebbe precluso anche il semplice avvio di un’indagine penale nei confronti del pubblico ufficiale, e ciò dovrebbe contribuire a liberarlo dalla c.d. “sindrome della firma”. In sostanza la riforma della fattispecie delittuosa in esame, operando una maggior tipizzazione della condotta penalmente rilevante, volge a ridurre il più possibile l’eventualità (non infrequente) che il rischio di subire l’intervento invasivo e penetrante del Giudice penale possa frenare l’iniziativa del pubblico amministratore.

Va detto, per altro, che il “nuovo” art. 323 c.p. non rappresenta il primo intervento di riforma del reato di abuso d’ufficio, ma l’epilogo semmai di un lungo e articolato percorso riformatore culminato con la novella legislativa del 1997, allorché il reato di abuso d’ufficio – proprio al fine di evitare che la fattispecie delittuosa potesse venir contestata in modo massivo ed indiscriminato – venne rimodulato attraverso l’inserimento di requisiti costitutivi (l’abuso d’ufficio divenne reato di evento e a dolo intenzionale) assai difficili da documentare sul piano probatorio. L’art. 23 D.L. 76/20 compie dunque un ultimo, importate passo in tale direzione.

In attesa delle necessarie verifiche circa l’efficacia dell’ultima riforma di questa controversa figura delittuosa, non possiamo fare a meno di evidenziare un vistoso paradosso nelle scelte del nostro legislatore. Mentre da un lato, con il “decreto semplificazione”, il Governo ha cercato di arginare l’intrusione nella sfera dell’azione amministrativa da parte della magistratura penale, d’altro lato lo stesso Esecutivo con il d.lgs. 75/2020, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14 luglio scorso, ha approvato la direttiva PIF (Direttiva UE n. 2017/1371 recante misure di diritto penale nella “lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione”), che prevede, tra l’altro, proprio l’inserimento del reato di abuso d’ufficio nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del d. lgs. 231/2001. In sostanza, con una mano il legislatore ha inteso togliere centralità alla figura criminosa in parola, rendendola ancor più residuale di quanto già non lo fosse, e con l’altra le ha restituito vigore e rilevanza, rendendola financo strumento per perseguire sul piano penal-amministrativo l’ente che abbia tratto vantaggio dalla illecita condotta del pubblico ufficiale.

Lampante esempio di strabismo normativo, al quale – purtroppo – il nostro legislatore ci ha ormai abituato.

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